Un trend correlato sempre più ad alcuni fattori che cerchiamo di esplicitare. Un nuovo approccio, un nuovo percorso per una diversa cultura della montagna.
Un trend correlato sempre più ad alcuni fattori che cerchiamo di esplicitare. Un nuovo approccio, un nuovo percorso per una diversa cultura della montagna.
Non passa giorno in cui le cronache non diano notizie legate ad un qualche evento di soccorso effettuato in montagna, un trend in costante crescita che, negli ultimi anni, ha assunto valori statistici sempre più significativi e rispetto ai quali dobbiamo iniziare a riflettere con rigore, andando oltre l’evidenza dei numeri, già di per sé comunque esemplificativi di questo fenomeno.
Alcuni dati che cristallizzano questo incremento esponenziale degli interventi di soccorso sono quelli che, con la comparazione del periodo 1975/1999 rispetto a quello 2000/2023, si connotano per un + 395,71% di interventi di soccorso e un + 332,38% di persone soccorse, di cui + 164,53% di persone decedute e + 396,68% di persone ferite, numeri che ci conducono velocemente al tema/problema più sotto esposto e trattato.
Rispetto a questa tendenza, qualificata dal dato a valenza nazionale che garantisce, quindi, la massima attendibilità statistica, tentiamo ora di esplicitare alcune cause evidenti di questo fenomeno ed altre cause meno appariscenti e che, proprio perché più latenti, possono risultare più pericolose e legarsi in modo inestricabile alla crescita costante delle missioni di soccorso e delle persone a vario titolo soccorse.
Nel novero delle ragioni non possiamo, allora, sottacere il conclamato aumento, in senso assoluto e relativo, dei frequentatori della montagna che, a partire dalla fine dello scorso millennio, hanno iniziato a prenderla d’assalto per le sue diverse forme di attrazione, soprattutto con una mobilità che si è spostata più in quota, lungo la sentieristica di collegamento dei rifugi, le vie ferrate e i sentieri attrezzati, le vie alpinistiche di stampo classico. Associato a questo indicatore, va di certo anche segnalata l’introduzione di nuove discipline legate, ad esempio, agli sport dell’aria (es. parapendio) o della mobilità sostenibile (e-bike in primis) o a quelli invernali (es. scialpinismo).
Solo questo fattore, preso anche in forma isolata rispetto a quelli più sotto richiamati, ha di per sé causato l’incidenza statistica ricavata dalla comparazione.
Rileviamo, quindi, a seguire come anche la telefonia mobile abbia giocato un ruolo essenziale in questo processo: da una parte il cellulare ha facilitato in modo incredibile le chiamate di allarme e la conseguente filiera dei soccorsi (attivazione, raggiungimento target, recupero e trasporto, il tutto di certo facilitato anche con l’avvento dei servizi di elisoccorso); dall’altra, ha però sdoganato la filiera di cui sopra anche per incidenti e/o infortuni invero molto banali, che fanno sorridere se rapportati alla media di quelli dei precedenti 25 anni, o generato situazioni che solo un ventennio fa non sarebbero state neppure prese in considerazione, tanto possono essere ritenute sconsiderate, se non addirittura associabili al procurato allarme (“voglio l’elicottero perché sono seduto qua con i miei figli al rifugio, siamo stanchi morti e non siamo più in grado di scendere”).
Altri fattori che dobbiamo in seguito evidenziare, sono senza dubbio l’abbassamento medio della preparazione fisica e psicofisica con la quale si dovrebbe affrontare l’ambiente montano e quello impervio, componente quest’ultima che risulta spesso associata all’inesperienza e alla correlata mancanza di preparazione tecnica, scarsa o assente conoscenza di materiali ed attrezzature.
Ma il dato più grossolano in questo elenco – lo vedremo, a breve, poco più avanti – è senza dubbio la capacità di assumere informazioni, scegliere e fare azioni, quindi, pianificare in conseguenza la meta. L’assenza cioè di una coscienza del proprio limite che determina processi decisionali anche fortemente alterati con effetti che possono ricadere anche all’interno di quelli elaborati da Dunning-Kruger e che, spesso, sono purtroppo direttamente riconducibili agli incidenti e agli infortuni.
Possiamo poi, considerare quali cause un ulteriore elemento di analisi e, cioè, quello legato all’innalzamento dell’età media delle persone che frequentano la montagna e che, come tali, possono essere più soggette ad incidenti ed infortuni.
Sino a qui, qualcuno sarà portato a dire che sono fattori abbastanza semplici da comprendere e, personalmente, do senz’altro ragione a chi sostiene questa tesi. Ma quelli che seguono, come vedremo, non sono però allo stesso modo immediatamente intuitivi.
L’elemento incontrovertibile, infatti, di una parte delle cause che, a partire dagli anni ’90, ha variato in modo significativo l’approccio alla montagna è stato però di certo il web, la possibilità cioè di accedere in rete con estrema facilità e con costi pressoché assenti ad una mole sterminata di dati e con un flusso in costante crescita.
Premesso che non si vuole demonizzare il web, va però in questo contesto ricordato che prima della navigazione ipertestuale, c’era lo studio per conoscere e sapere la meta attraverso l’analisi di guide/mappe e supporti cartacei, la verifica molto attenta del percorso e dei pericoli connessi anche con il confronto puntuale con quanti quelle mete le avevano già raggiunte, la raccolta di elementi informativi sul luogo prima di partire. Tutte queste modalità mettevano in gioco la capacità di assumere informazioni in modo quasi scientifico, attraverso operazioni che portavano al vaglio e certificavano vari dati ed elementi. Ora non è più così, dall’avvento di internet tutto si è trasformato in altre metodologie, spesso spicciole e per forza di cose incomplete.
Oggi, viceversa, tutto è stato facilitato da un “sapere comodo”, banalizzato dalla più classica delle ricerche virtuali dove, il primo risultato di un qualsiasi motore di ricerca che ci ha proposto il nostro prossimo obiettivo in pochi centesimi di secondo, non importa come sia o venga descritto, diventa allora il più delle volte la nostra non verificata guida, guida assoluta alla quale ci affidiamo passivamente, senza che sia intervenuta, come in passato, nessuna interazione con la realtà o la verità.
La successiva distorsione che ha nondimeno accelerato in modo netto la nostra capacità di discernimento ed analisi, comprensione e sapere, è senza dubbio stata data nell’ultimo quindicennio dall’avvento dei social media. I like governano attualmente processi cognitivi anche molto complessi che vengono diversamente semplificati da algoritmi lontani dal considerare le intime componenti delle difficoltà e dei pericoli che possono legarsi all’ambiente montano e a quello impervio del territorio.
Contermine a questo saliente primo aspetto c’è un riflesso sottoprodotto, cioè la spinta, che è poi connaturata allo strumento, a pubblicare in real time tutto quello che facciamo (nda: non ne sono esente, ma ho almeno questa consapevolezza), congiuntamente alla necessità di essere sempre on line ovunque in questa sorta di bulimia comunicativa.
Va da sé che queste componenti, pur nella descrizione sommaria che ne ho dato, hanno di fatto anche introdotto una sorta di competitività sociale (“lo ha fatto lui devo farlo anche io”) e il conseguente o correlato bisogno di consenso sociale (“ho messo anche io la stessa foto della cima raggiunta, tra le altre cose, come lui nello stesso tempo”), parametri che sono sempre esistiti, ma che sino a poco tempo fa erano fortemente limitati alla sola componente alpinistica d’elitè.
Inoltre, questi strumenti hanno profondamente alterato la vecchia strategia informativa, traslando spesso su luoghi comuni quella che sembra essere diventata ormai una disciplina sociale che, per l’appunto norma, il nostro agire in modo sempre più convenzionale (“c’era scritto anche sul tal social-media”, ergo diventa per forza di cose scontata verità), evitando così di farmi uscire dal gruppo di appartenenza o di farmi isolare, pur sempre nella virtualità. E questo è già di per sé un paradosso, se vogliamo darne una lettura autentica.
Ma perché tutto questo deve preoccuparci?
Ci preoccupa perché quanto sopra descritto ha portato a modificare in modo profondo tutti i processi che ci guidano all’identificazione del pericolo in modo oggettivo (es. la possibilità di una caduta dall’alto se percorro un sentiero) e, soprattutto, la percezione del rischio connesso (es. la possibilità statistica che la caduta generi un qualche trauma o ferita e, nei casi, più importanti, anche la perdita della vita) e la sua valutazione quando si presenta il potenziale rischio e conseguente pericolo.
Ecco il motivo per il quale, quando si associano uno o più d’uno dei punti sopra descritti (in questo caso il combinato disposto di due o più fattori porta ad un aumento esponenziale del rischio) scattano le così dette trappole euristiche indoor (la supposta pianificazione/processo legato alla decisione del mio obiettivo escursionistico/alpinistico/ecc. fatto direttamente dal web) ed outdoor (la supposta pianificazione/decisione quando mi trovo in una zona appena contermine al pericolo o già all’interno di esso, in quanto già magari innescato) che diventano alla fine precipizi euristici.
Facendo un po’ di luce su questi concetti, possiamo dire che queste trappole euristiche sono, in psicologia, delle semplici regole ormai standardizzate che sono state proposte per spiegare come le persone risolvono, danno giudizi, prendono decisioni di fronte a problemi complessi o informazioni incomplete, in quanto il nostro sistema cognitivo (apprendimento razionale) è un sistema a risorse limitate che utilizza queste euristiche come strategie sufficienti e necessarie per semplificare i problemi, assumere le decisioni conseguenti ed agire/fare.
Tutto questo nell’ordinarietà delle nostre azioni come, ad esempio, una camminata di qualche decina di minuti, con il bel tempo, alla mattina presto, su mulattiera asciutta con pendenza irrilevante a lato di un bosco pianeggiante con assenza di scarpate, non comporta di prassi problemi, ma quando lo scenario varia in modo più o meno significativo per quota, dislivello, morfologia del terreno e sue condizioni, per la temperatura, la presenza di vento, il tempo meteorologico, le condizioni fisiologiche, lo stato psicologico, ecc., allora variano anche le variabili connesse al pericolo e ai rischi.
Le euristiche conducono in questi specifici casi spesso ad errori marchiani, poiché il cosiddetto metodo che si basa sul “tentare, sbagliare e imparare” e sulla sua reiterazione (così iniziamo in genere qualsiasi processo di apprendimento), in ambiente ordinario non fa particolari danni, in montagna e, in genere, nell’ambiente impervio, può fallire pesantemente ed irreversibilmente proprio perché non c’è più spazio e tempo per recuperare.
Se poi a questi processi addizioniamo anche quelli che tecnicamente vengono chiamati “stereotipi”, cioè un tipo di euristica che viene utilizza per crearsi delle opinioni o esprimere dei giudizi su cose mai viste (es. una ferrata) o di cui non si è mai avuto esperienza (es. il percorrere una ferrata), allora arriviamo a determinare un’equazione con troppe variabili per essere risolta. Da qui scaturisce la necessità di prendere delle scorciatoie che riteniamo essere logiche, ma che tali alla fune non sono.
Troppo spesso, sempre più spesso anzi, questi stereotipi concorrono o conducono direttamente all’incidente e/o all’infortunio correlato o alla situazione di possibile rischio evolutivo o all’incapacità di muoversi a causa del terreno o a altre situazioni che rendono necessario sempre più frequentemente l’attivazione di risorse particolari come il 118 e il Soccorso Alpino.
Cosa fare e come fare per arrestare questi numeri? Contrarre gli esiti invalidanti, gli incidenti mortali?
Non è una risposta retorica, ma si deve perseguire e ritrovare una cultura della montagna responsabile che si acquisisce per forza di cose con processi lenti e meditati, con l’esperienza che si somma ad esperienza, con la conoscenza superficiale che diventa sapere maturo con il tempo necessario. Diversamente non è affatto cultura e ricadiamo velocemente negli esempi prima proposti.
Tutto questo può facilmente concretizzarsi attraverso gli strumenti che sono e rimangono sempre l’informazione e la prevenzione di quantità e qualità, fondamenti decisivi e non evitabili.
Il metodo di lavoro perché sia efficace deve per forza di cosa essere ancorato ad una esposizione didattica che sappia essere prima di tutto educazione autentica, in grado di spiegare non solo principi e che sappia anche rinunciare, da subito, alla narrazione aneddotica o al centone che giudica. Un’educazione in grado di presentare esempi concreti e tratti dal reale che diventa, alla fine di un percorso, cultura che si ancora al tempo praticato “in cui si sta” e non già all’effimero di un post o di un like dove “non si sta” già più dopo pochi attimi.
La scuola diventa perciò l’irrinunciabile ambito in cui quanto segnalato e proposto possa avvenire, svilupparsi e concretizzarsi in un percorso certo complesso, ma di certo esemplare per offrire al prossimo escursionista, alpinista o scialpinista che sia, gli strumenti idonei per iniziare ad abbassare il trend sopra evidenziato.
Il resto, cioè tutti i tentativi sino a qui esperiti, sono pur sempre cerotti applicati su patologie che vanno diversamente affrontate e vinte con la calma del tempo e di un adeguato percorso.
Fabio Bristot – Rufus