FALCO
I – REMS
I am flying, I am flying,
like a bird ‘cross the sky.
I am flying passing high clouds,
To be with you, to be free
“Sailing” – Rod Stewart
PRECISAZIONE
Come è comprensibile ai più (forse non a tutti, ma ce ne faremo una ragione) senza il prezioso e concreto aiuto degli sponsor non sarebbe stato per noi possibile tracciare alcun carattere su questi fogli che, diversamente, sarebbero rimasti un ottativo non corrisposto, senza riuscire, quindi, ad esprimere quello che con forza speriamo di poter comunicare al paziente ed attento lettore.
Ringraziamo, quindi, chi ci ha permesso di raggiungere l’obiettivo di pubblicare “Falco I-REMS”. Senza il fondamentale sostegno esposto in ordine rigorosamente alfabetico di Air Service Center S.r.l., Credito Cooperativo Cassa Rurale ed Artigiana di Cortina d’Ampezzo e delle Dolomiti, DBA Group S.p.a., F.lli De Pra S.p.a., Karpos, Linea Verticale, Regole d’Ampezzo, Rova Giancarlo S.r.l., SEST S.p.a. e SISP Italia S.r.l., non saremmo, dunque, mai riusciti ad intrattenervi un poco con la lettura di questo racconto, nella scoperta e conoscenza dei suoi personaggi, delle loro tensioni e aspirazioni, dei sogni…
PREFAZIONE
Questo racconto è un’opera di pura fantasia, anche se inevitabilmente si collega ai fatti reali occorsi in data 22 agosto 2009, quando in località Rio Gere (Cortina d’Ampezzo – Belluno), alle pendici del Monte Cristallo, un elicottero A109S Grand (Agusta Westland), marche di immatricolazione I-REMS, della ditta Inaer Helicopter Italia S.p.a. esercente il servizio per conto del Suem 118 di Pieve di Cadore dell’Ulss n. 1 di Belluno, impatta i cavi di una linea di media tensione, di proprietà privata.
Le comprensibili e terribili dinamiche provocate dall’urto portarono alla morte di tutto l’equipaggio formato da Stefano Da Forno (Tecnico di soccorso alpino e Tecnico di elisoccorso), Dario De Felip (Pilota della ditta Inaer Helicopter Italia S.p.a.), Fabrizio Spaziani (Medico anestesista del Suem 118 e Tecnico di soccorso alpino) e Marco Zago (Tecnico aeronautico della ditta Inaer Helicopter Italia S.p.a. e Tecnico di Soccorso Alpino). Unico sopravvissuto fu Luca Pislor (Infermiere professionale del Suem 118) sbarcato tra la prima e la seconda ricognizione effettuata dall’elicottero nella zona della tragedia per assistere un paziente (vedasi “Relazione: la nuda cronaca dell’incidente” a fine testo).
Nomi e personaggi, il vissuto personale e interpersonale dei soggetti identificati come Diego, Francesco, Michele, Stelvio e delle correlate compagne di vita, oltre che di tutti gli altri personaggi, sono frutto dell’immaginazione degli autori e come tali sono usati in modo del tutto fittizio in relazione alle vicende e vicissitudini di carattere personale e famigliare descritte e narrate.
L’assoluta somiglianza, invece, con i fatti in premessa descritti, i luoghi e le persone in relazione alle loro funzioni, ancorché associate ad altri nomi, invece, non sono affatto casuali, ma un elemento fortemente voluto. Voluto, quanto richiesto dalla necessità di connotare questo libro non solo con i tratti della mera fantasia narrante, ma anche con azioni che facilitino la comprensione dei processi e delle dinamiche legate al mondo del Soccorso Alpino e del Suem 118 e, più espressamente, a quelle dell’elisoccorso.
In modo particolare, si è voluto porre in evidenza senza possibilità di edulcorazione – questo aspetto è incipite file rouge del racconto stesso – il problema degli ostacoli al volo alla navigazione aerea, causa ed intimo motivo per cui evidentemente si è scritto. Ostacoli al volo lineari, verticali e, anche mobili (come ultimamente possono essere definiti, ad esempio, i droni) che rappresentano un gravissimo, irrisolto problema del nostro (Bel) Paese e che, come tale, aspetta da decenni una soluzione certa e definitiva, senza più balbettii e tentennamenti di sorta, da parte di uno Stato colpevolmente inerte.
Queste soluzioni devono, infatti, essere garantite ora, perché nessun altro libro sul tema sia mai più scritto. Mai più.
Al mio papa,
E a tutte le persone che la montagna
hanno saputo, sanno e sapranno
amarla,
viverla
e comprenderla.
Katia
PROLOGO
Il rifugio, una struttura in cemento piuttosto sgraziata, ingentilita solo da qualche inserto in legno chiaro, se ne sta aggrappato ad un erto pendio disseminato di grossi massi biancastri. Le imposte, colorate di azzurro, restano sempre spalancate verso l’imponente cattedrale di roccia, la cui verticalità da sempre affascina gli scalatori di mezzo mondo.
Alle sue spalle, qualche decina di metri più in alto, si apre un balcone naturale a precipizio sulla vallata sottostante, dal quale si può ammirare il lago color smeraldo che spicca nel contorno di larici ed abeti, affiancato da un sottile nastro d’asfalto lungo il quale stanno adagiate tante piccole casette.
Sull’ampio terrazzo, seduti ai tavoli scoloriti dalle intemperie, escursionisti e appassionati di montagna si godono il fresco dell’alta quota, sorseggiando una birra e gustando generosi vassoi di salumi e formaggi di produzione locale.
È una splendida giornata estiva, con poche nuvole in cielo e tanta gente sui sentieri. Chiacchiere, risate, grida di bambini, latrati di cani… più che in rifugio sembra di essere nella piazza di un paese.
Poi, inaspettatamente, un uomo di mezza età si alza di scatto dalla panca e zittisce tutti con un gesto ripetuto più volte.
“Sento un rumore… fate silenzio, perdio! Là! Arriva da là!”
Decine di teste curiose si girano nella direzione indicata dal dito.
“È vero, lo sento anche io! Però secondo me arriva da lì…” – lo corregge una ragazza in compagnia di alcune amiche.
Lo sguardo dei presenti cambia allora direzione.
Nel giro di pochi istanti, il ronzio si trasforma in un rombo piuttosto intenso, rimbalza sui fianchi della montagna, riempiendo piano piano la vallata.
“Eccolo! Eccolo! È laggiù!”
Nuovamente gli occhi trovano un altro punto su cui focalizzarsi. E stavolta lo vedono, un puntino giallo all’orizzonte che si avvicina veloce.
“Deve esserci qualcuno in difficoltà in parete” – interviene il gestore che, appoggiato allo stipite della porta, si asciuga le mani sul grembiule blu fissando la cima.
“Oddio, speriamo che nessuno si sia fatto male!” – gli fa eco una corpulenta donna facendosi il segno della croce.
Un ragazzo fruga velocemente nello zaino e ne estrae un piccolo binocolo verde. Scruta la roccia grigia dal basso verso l’alto prima di esternare a tutti la sua scoperta: “Lassù! Quasi in vetta, sopra la cengia a lato di quel colatoio nerastro!”
“Si, è vero, ci sono due puntini… uno rosso e uno giallo!”
“Hai ragione, li vedo anche io!”
Intanto l’elicottero è ormai sopra le loro teste. Si avvicina alla parete, rimane sospeso, quasi immobile, a pochi metri dalle rocce per qualche attimo, poi si allontana e atterra qualche istante più tardi sullo spiazzo erboso ai piedi del rifugio. Dal portellone aperto scendono di corsa due uomini in tuta rossa.
“Tirate giù tutto quello che non serve svelti!”
Attraverso l’interfono il pilota comunica al tecnico aeronautico e a quello di elisoccorso che ha bisogno di tutta la potenza disponibile. Durante la ricognizione ha effettuato una prova e valutato che per evacuare in sicurezza entrambi gli scalatori per mezzo del gancio baricentrico deve avere a bordo meno peso possibile. In base alle informazioni in loro possesso, comunicate dalla centrale del Suem 118, uno dei due scalatori si è ferito seriamente ad una gamba a causa di un volo di qualche metro e non è più in grado di continuare l’ascesa. Lo hanno visto in parete, insieme al compagno di cordata, in una posizione abbastanza precaria, ma all’apparenza entrambi saldamente ancorati alla roccia.
I due tecnici effettuano i vari preparativi: ottanta metri di corda sono più che sufficienti e vengono agganciati sotto la pancia dell’elicottero che si libra a un metro da terra. Poi l’uomo del Soccorso Alpino si attacca alla fune per mezzo di moschettoni e imbrago e al suo segnale che è tutto a posto, il velivolo comincia a salire in verticale. La corda lo segue fino a quando si tende e i piedi dell’uomo si staccano lentamente dal suolo. Dal portellone aperto, il tecnico aeronautico, assicurato all’interno per mezzo di una longe, osserva che tutto sia a posto. È lui l’occhio del pilota, lui che fornisce le indicazioni necessarie affinché la persona appesa là sotto venga depositata esattamente nel punto corretto.
Cieca fiducia. Senza di essa stare appesi a centinaia di metri da terra mentre la parete verticale si avvicina metro dopo metro, centimetro dopo centimetro, sarebbe pressoché impossibile. È la fiducia, più che la corda, a legare all’elicottero chi è agganciato sotto e viceversa. La consapevolezza che tutti sappiano esattamente cosa devono fare è l’unica certezza. Il margine d’errore è minimo, quasi inesistente, ma è sempre, in realtà, presente.
Ora, i due scalatori non sono più piccole macchie colorate, quasi sbiadite dalla lontananza. Ora hanno un volto, occhi spalancati che osservano con una sorta di ammirazione, commista ad un sollievo che inizia a diffondersi nel corpo ancora contratto. Basta poco all’uomo del Soccorso Alpino per comprendere la situazione. La gamba destra dell’alpinista è evidentemente spezzata e l’uomo, in stato di shock e con una ferita sanguinante alla tempia, si trova in una posizione piuttosto instabile su uno spuntone roccioso.
Mentre sopra le loro teste le pale dell’elicottero sfiorano la parete, il tecnico di elisoccorso, che si chiama Davide, si avvicina all’infortunato senza sganciarsi dalla corda e facendo particolare attenzione a non smuovere pietre. La soluzione migliore è sicuramente trasportare l’uomo a terra, dove il medico potrà prestargli le cure necessarie. Gridando per sovrastare il rumore e con ampi gesti, Davide chiede all’altro alpinista se gli è possibile avvicinarsi in modo da poterli evacuare entrambi rapidamente. L’altro fa cenno di aver compreso alzando il pollice e velocemente comincia ad approntare la breve manovra di discesa, riuscendo a portarsi a fianco del compagno infortunato in pochi secondi.
“Tranquillo – grida con particolare forza il soccorritore – ti portiamo giù dove potrai ricevere le prime cure. Stai fermo che mi arrangio io ad assicurarti alla corda del gancio! Fermo così! Fermo!”
L’uomo annuisce con la testa, stringe i denti per il dolore mentre osserva Davide armeggiare con imbrago e moschettoni. Nel frattempo, anche il compagno che ha appena rimosso alcuni cordini utilizzati per calarsi più velocemente, viene agganciato al baricentrico. Sono passati pochi istanti, ad un segnale convenuto, dato via radio, l’elicottero prende quota pian piano e, non appena la doppia corda che lo lega alla pancia del mezzo aereo sta per entrare in tensione, l’uomo del Soccorso Alpino, con una forbice, recide di netto la corda usata dagli scalatori per l’arrampicata.
1
Ancora pochi giorni. Poco più di un paio di settimane e gli zaini relegati nella parte più nascosta dell’armadio torneranno a riempirsi di libri, quaderni, colori e matite. Nell’aria già rinfrescata dai primi temporali sui monti, pare che anche le grida dei bambini assumano un tono diverso, consapevoli forse che, a breve, lo spelacchiato e chiassoso prato sotto casa perderà la sua veste di piccolo stadio, per tornare ad essere terreno di pascolo per Jimmy, l’asino del signor Beppe, con buona pace di tutto il vicinato.
Laura osserva dalla finestra aperta il gruppo di ragazzini sudati che rincorrono un pallone tra urla e schiamazzi, ignorando per qualche istante la pila di panni da stirare che ancora ingombra il tavolo del salotto e parzialmente il divano.
In fondo, le vele colorate di windsurf e kitesurf tingono di mille colori il lago di Santa Croce che, grazie al vento che si incanala lungo la sella del Fadalto e alla conformazione delle spiagge, attira amanti di questi sport da ogni dove, per buona parte del periodo primaverile ed estivo.
Le piace vivere qui, tra questi paesi sospesi tra acqua e cielo, aggrappati tenacemente ai fianchi di questa conca verde che culmina verso sud-est con l’altopiano del Cansiglio e il suo maestoso bosco, luogo privilegiato per l’osservazione dei cervi in amore e per tranquille passeggiate alla ricerca dei villaggi cimbri nascosti tra la fitta vegetazione di faggi e betulle.
Belluno dista una manciata di chilometri, le Dolomiti sono là a pochi minuti di macchina. L’autostrada che costeggia il lago già da qualche anno ha reso più facile anche trascorrere una domenica al mare con la famiglia.
La casa dove abita era della nonna di Diego, il suo compagno. Con qualche sacrificio l’hanno trasformata in una graziosa villetta con la taverna nel seminterrato, dove trascorrere piacevoli serate con gli amici davanti al fuoco del caminetto nelle lunghe sere d’inverno e il giardino, col gazebo, da sfruttare, invece, in estate.
Come sognava da piccola, dorme in una camera nel sottotetto con le travi a vista e la terrazza che guarda direttamente verso lo specchio d’acqua. Un lucernario sopra il letto, da cui osservare le stelle nelle notti serene, completa il sogno.
Respira a pieni polmoni: cosa può volere di più?
“Mamma, Simone mi fa arrabbiare!”
Laura ha un sussulto. Si volta, col cuore che le batte in gola.
“Amore, mi hai spaventata!”
Il bambino ha il viso tutto imperlato da gocce di sudore rappreso dalla polvere, la maglietta sporca di terra nera e un ginocchio sbucciato di fresco. Non si era accorta che fosse entrato in casa, né che la sua testolina bionda fosse scomparsa dal gruppo là di sotto. Tiene il solito broncio severo e il suo inseparabile pupazzo di Superman in mano.
Laura si piega sulle ginocchia per portare gli occhi allo stesso livello di quelli del figlio.
“Perché cucciolo? Cos’è successo stavolta?”
“Lui dice che non è vero che papàè Superman!”
“Ancora con questa storia! Papà non è Superman! È come Superman!”
“È uguale!” – sentenzia il piccolo.
“No, non è uguale! Chi è Superman?”
Il bambino tira su col naso, sospira e ripete la frase imparata a memoria: “Superman è un uomo normale che però, quando sente che qualcuno è in difficoltà, si cambia d’abito, ne indossa uno speciale, spicca il volo e corre in suo soccorso! Come fa papà!”
“Quasi! Superman vola grazie ai suoi superpoteri, invece papà vola grazie a…?”
“Falco!”
“Ecco, bravo! Lo vedi allora che non sono proprio uguali? E poi papàè anche più bello!”
Laura strizza l’occhio al figlio, gli sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e lo rispedisce di sotto con una pacca ben assestata sul sedere. Quel bambino stravede per il padre, guai se qualcuno, grande o piccolo che sia, cerca di sminuirne la figura o mettere in dubbio le sue capacità!
Lo osserva tornare in mezzo agli altri, appoggiare delicatamente il pupazzetto sul muretto di sassi e riprendere a dar calci al pallone come se niente fosse successo.
Beati i bambini che non sanno cosa sia il rancore! E credono nell’esistenza di Superman. Lei invece, al supereroe, deve ancora finire di stirargli le camicie! E poi lo chiamano giorno libero…. Sbuffando, Laura riprende in mano il ferro da stiro.
2
“Che palle! Ti pareva che per una volta che si riesce a organizzare un’uscita il meteo non dovesse rompere i coglioni!”
Stelvio infila un grappolo di moschettoni su un gancio da macellaio appeso allo scaffale. Poi estrae dallo zaino alcuni rinvii, una corda verde maculata da tanti puntini arancioni, una serie di cordini e fettucce e sistema ogni cosa meticolosamente al suo posto. Nel resto della casa sembra sia scoppiata una bomba: una pila di piatti nel lavello da giorni, vestiti sparsi ovunque, mobili con tre dita di polvere… ma lo scaffale dell’attrezzatura da montagna può fare tranquillamente concorrenza a quello di una sala operatoria tanto è pulito e perfettamente in ordine.
L’orologio in cucina segna le otto meno un quarto. Ora di cena. Stelvio apre il frigo, osserva i ripiani vuoti e lo richiude scuotendo la testa.
“Eh, vabbè, mangerò un toast al pub. Visto che domani si può dormire, un paio di birrette me le posso pure concedere!”
Ce l’aveva in calendario da mesi, lo “Spigolo Giallo” sulle Tre Cime. Lui lo aveva già scalato un paio di volte, ma per l’amico che avrebbe dovuto accompagnare l’indomani era un sogno che purtroppo sarebbe rimasto tale ancora per un po’. Non aveva senso, infatti, avventurarsi per monti con previsioni simili. Anche se gode della fama di matto, Stelvio conosce bene il limite da non superare mai e i casi in cui è più sensato praticare il gesto della rinuncia piuttosto che farsi venire a recuperare dai suoi colleghi del Soccorso Alpino.
Aveva aspettato fino all’ultimo prima di chiamare il compagno di scalata e avvisarlo con tono seccato che avrebbe potuto starsene a letto tranquillo l’indomani. Poi aveva posato il cellulare distrattamente da qualche parte. Qualche istante più tardi, dopo l’ennesima ricerca affannosa del telefonino, lo aveva richiamato, quasi a giustificarsi della prima telefonata, confermando comunque le previsioni pessime per l’indomani.
Gli amici lo prendevano sempre in giro per quelle sue continue dimenticanze e per la sua trasandatezza al di fuori di tutto ciò che non riguardasse la montagna. Lavorava come imbianchino, ma nel suo vecchio furgone con gli ammortizzatori scoppiati si poteva trovare di tutto, perfino l’assassino di Kennedy come sosteneva ironicamente qualcuno. Gli amici lo prendevano in giro anche per il suo nome, ma ormai non ci faceva più caso, anzi, ci rideva sopra pure lui. Ma in passato, neppure tanto lontano, non era sempre stato così.
Da piccolo, quel nome strano era stato il suo incubo. Avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di poterlo cambiare con un nome normale. Col tempo, l’amore dei genitori per la montagna si era inevitabilmente trasmesso al figlio e allora quel nome era diventato il segno del destino e, anzi, motivo di autentico orgoglio.
Era stato durante un’escursione col padre che aveva capito cosa avrebbe voluto fare da grande. Erano saliti al Rifugio Carestiato, sotto la Moiazza. Lasciato il genitore a bere un bicchiere di vino in compagnia del gestore, Stelvio era uscito e, subito, la sua attenzione era stata attirata da un rumore insistente, amplificato probabilmente dall’eco creato dalla quinta rocciosa molto vicina.
Con una mano a proteggersi dal sole, aveva scrutato la parete fino a individuare quegli uomini vestiti di rosso che, appesi sotto la pancia di un elicottero tramite un lungo filo quasi invisibile, sfioravano la montagna certamente per effettuare una qualche manovra di soccorso a favore di uno scalatore trovatosi in difficoltà.
Era rimasto a lungo ad osservare, affascinato quanto incredulo, il velivolo che rimaneva quasi immobile sopra le teste di quelle piccole formiche dalle fattezze umane, sospese tra roccia e cielo, e si era detto che un giorno anche lui si sarebbe appeso a un filo come quello e avrebbe salvato delle persone.
C’era voluto del tempo, come per tutte le cose fortemente desiderate e che sono allo stesso tempo obbiettivi importanti e complessi da raggiungersi. Aveva frequentato corsi, sia teorici sia pratici, era stato sottoposto ad esami e valutazioni molto severe, ma alla fine il suo sogno si era avverato: era riuscito a diventare un tecnico di elisoccorso. Una volta raggiunto l’agognato traguardo gli aggiornamenti e gli addestramenti erano diventati una necessaria costante. I frequenti cambiamenti nelle tecniche e nei materiali usati nei soccorsi, l’importanza della preparazione e dell’affiatamento con gli altri soccorritori rendevano necessario impegnare tempo e fatica, ma per Stelvio erano il tempo e la fatica meglio spesi della propria vita.
Quando gli capitava di penzolare sotto l’elicottero, a pochi metri dalle rocce, mentre si avvicinava alla persona da soccorrere, a quegli occhi sconosciuti che indagavano i suoi con un duplice sentimento di paura e gratitudine, percepiva fiumi di adrenalina scorrergli nelle vene, si sentiva terribilmente vivo.
Qualche volta, purtroppo, non c’erano né occhi da fissare né muscoli da calmare, solo corpi inermi da recuperare e portare a terra, perché in montagna, spesso, gli errori possono risultare fatali e i finali tragicamente conseguenti.
In quelle occasioni gli capitava di pensare alla fragilità dell’esistenza, al dolore di chi restava. Allora, trovava una segreta giustificazione alla sua ostinata volontà di non volere legami, condizione mentale che contrastava davvero con la sua spiccata socialità che, unita alla naturale simpatia, lo portava ad avere un sacco di amici e una movimentata vita sentimentale.
Proprio ieri una bella biondina gli aveva lasciato il suo numero prontamente memorizzato sul cellulare che, guarda caso, non ricordava più dove aveva messo.
“Beh, fanculo, se il telefono non salta fuori pazienza, lo cercherò domani. Tanto adesso non mi deve più chiamare nessuno, i ragazzi li trovo tutti al bar e ora ho troppa fame per pensare a dove lo posso aver ficcato. La biondina aspetterà!”
Stava per chiudersi l’uscio alle spalle quando un debole trillo aveva richiamato la sua attenzione. Tendendo bene l’orecchio, si era avvicinato alla fonte del suono che, alla fine, era risultato provenire dal cassetto delle posate.
“Ma come accidenti ho fatto a mettere il telefonino qua dentro…” – aveva pensato leggendo il nome sul display – chiedendosi se fosse il caso di rispondere a quel pirla che, di sicuro, lo aveva chiamato solo per prenderlo in giro.
3
La terrazza della loro casa si protende verso la Piave che, poco più sotto, con un’ampia ansa, cerca placida la strada, ancora piuttosto lunga, verso il mare. C’è un venticello fresco stasera che porta un odore intenso di pioggia.
Anna si sfrega le mani sulle spalle, rabbrividendo un poco.
“Hai freddo amore? Vuoi metterti la mia felpa?”
Lei annuisce e sorride a quell’uomo sempre pieno di attenzioni che riesce a farla sentire una sorta di principessa. Per molti aspetti è davvero fortunata ad avere un marito come Francesco, non da ultimo quello che è un cuoco provetto e, nelle rare e preziose occasioni in cui possono concedersi il lusso di stare tranquilli assieme, riesce a deliziarla con squisiti manicaretti, spesso frutto di ricette estemporanee, ma sempre efficaci nella presentazione e nel gusto delicato.
“Domani sei su?” – chiede lei senza bisogno di specificare cosa intende dire con quella breve costruzione verbale che sottintendeva già tutto con chiarezza. Lui annuisce mentre sorseggia lentamente un bicchiere di Sauvignon bianco, degno accompagnamento al branzino al sale i cui resti, alcune spine bianche e qualche lembo di pelle argentata, giacciono nel piatto da portata al centro della tavola.
“A proposito, mi sono scordato di dirti che lunedì sera ho una riunione a Padova per via di quel progetto… mi hanno avvisato solo stamattina. Lo so che ti avevo promesso che sarei venuto al compleanno di tua sorella, ma non posso davvero mancare!”
È davvero mortificato, Anna lo sa e sa anche quanto impegno e quanto sudore abbia messo in quell’iniziativa, per cui non se la sente proprio di fare l’offesa, anche perché andare a casa di sua sorella, da quando si è separata dal marito, richiede uno spirito di sopportazione non indifferente.
“Le date sono definitive adesso?” – chiede tamburellando con le dita sul tavolo.
Lui annuisce di nuovo.
“Sì, abbiamo già ottenuto i permessi e le autorizzazioni necessarie. Salvo imprevisti, la partenza è fissata per il cinque marzo.”
Marzo! Sembra così distante… eppure lei sa che arriverà troppo in fretta.
“E il rientro?”
Francesco aspetta un po’ prima di darle la risposta, guarda verso il fiume ormai intrappolato nell’oscurità del cielo.
“Tre giugno, salvo imprevisti” – risponde ravviandosi un ciuffo di capelli dalla fronte.
“Wow…”
Se lo aspettava, ma averne la certezza dava ora un’altra prospettiva alle cose.
Si morde il labbro inferiore nervosamente. “Tre mesi senza di te… come farò a resistere? Il ristorante “Chez Francesco” chiuso per ferie …”
Decide di buttarla sul ridere, ma ha un groppo che le serra malamente la gola, nonostante sia felice per lui che sta realizzando un progetto su cui lavorava da anni e al quale tiene in modo particolare.
È sempre stato il suo sogno quello di portare il suo aiuto e le sue conoscenze in posti remoti, dimenticati, ove ce ne fosse bisogno. Quando alcuni colleghi gli avevano chiesto se era disposto a dar loro una mano a mettere in piedi una scuola per medici ad Haiti, aveva preso la palla al balzo e si era gettato a capofitto nell’impresa. Lei era consapevole che la sua paura era in realtà del tutto irrazionale, però non poteva impedirsi di esserne continuamente pervasa. Francesco, in quell’attimo, glielo deve aver letto negli occhi e nel tremolio della voce, perché si era alzato ed avvicinatosi le si era accovacciato davanti, prendendole le mani tra le sue e baciandole poi sui palmi ripetutamente.
“Anna, andrà tutto bene, non hai nulla da temere! Starò lontano solo per un po’. Ti prometto che al mio ritorno ci siederemo qui in terrazzo, spargeremo sul tavolo tutti quei dépliant delle Seychelles che tieni chiusi da tempo nel cassetto del tuo comodino e programmeremo la vacanza più rilassante e coccolosa che si sia mai vista! Quindici giorni di cielo azzurro e mare trasparente, cristallino, nella suite più lussuosa di tutto l’arcipelago!”
“Dici davvero?”
Lui la guarda divertito e le dona uno dei suoi sorrisi talmente profondi da sembrare magici, quelli che le fanno scordare d’incanto tutti i brutti pensieri.
“Certo! A parte la suite, che non so se ce la possiamo permettere…”
“Mi accontento anche di una baracca di quattro assi e cinque chiodi, basta che tu sia con me!”
Lei lo stringe forte a sé, lo respira, se ne riempie le narici e spera così di trattenere anche un po’ della sua bontà, del suo altruismo, della sua generosità. Almeno il suo profumo pulito.
“Ti amo, lo sai vero?” – dice prendendogli il viso tra le mani e accarezzandogli la barba di tre giorni.
“Si che lo so! Ti amo anch’ io! Vado a fare il caffè.”
Lui si alza e scompare dietro la portafinestra. Anna si stringe sulle spalle la felpa troppo grande e guarda gli ultimi tenui riflessi di luce dietro le cime.
In fin dei conti, marzo è ancora sufficientemente lontano.
4
Michele ha dormito male. E poco! Si sente le ossa rotte e un leggero fastidio alla testa, ma dubita si tratti di influenza.
Colpa di Teo, di Teo e di sua moglie che si ostina a volerlo tenere nel letto con loro due. Precisamente tra loro due!
Vuole bene anche lui a Teo, ci mancherebbe, lo hanno voluto entrambi, hanno scelto il nome assieme, ma che la sua compagna preferisca alla sua vicinanza quella di un Golden Retriever, per quanto pulito ed educato, gli sta un po’ dando fastidio.
Il fatto poi che la bestia in questione abbia un sonno particolarmente tormentato, rende ormai necessario affrontare l’argomento che ha originato il dissidio, prima che sia troppo tardi e Teo prenda definitivamente la residenza nella loro camera, costringendolo all’insonnia o all’esilio forzato sul divano.
Perché Elena lo sta facendo apposta, di questo è consapevole. È il suo modo, neanche tanto velato, di fargli capire che è arrabbiata con lui e non c’è bisogno di chiederle il motivo, lo sa fin troppo bene. È in attesa di una risposta che lui non sa darle. Ci deve pensare ancora, deve capire se davvero sia in grado di sopportare tutto ciò che lo aspetta nel caso fosse portato a dire di sì.
Invidia la sua fermezza, la sua risolutezza, la sua assoluta certezza. Lui non è, infatti, così sicuro che adottare un bambino sia una buona idea. Eppure un figlio lo vorrebbe, Dio solo sa quanto… Anche due, anche più di due! Lui adora i bambini e anche i bambini lo adorano.
Talvolta, vengono organizzati degli incontri nelle scuole nei quali si spiegano le peculiarità dell’elisoccorso. In queste occasioni, i ragazzini gli stanno sempre tutti intorno, ponendogli – guarda caso sempre a lui e mai al pilota di turno che invece dovrebbe essere il catalizzatore di tutta l’attenzione e l’idolo indiscusso – mille domande ed altrettanti quesiti.
In realtà non conosce il motivo di questa sua capacità attrattiva, caratteristica della quale, peraltro, in alcuni momenti si compiace poiché gli dona gioia.
Alex, uno dei piloti e suo caro amico, sostiene, dandogli indirettamente del bambinone, che tra simili spesso ci si attrae. Forse in questo c’è del vero: gli piace ridere, scherzare, giocare, prendere le cose con allegria e cercare di vedere la vita sempre dal lato positivo.
Oggi, però, è una di quelle rare giornate storte dove i pensieri prendono il sopravvento e il sorriso lascia il posto alla malinconia. Certo che gli piacerebbe diventare padre! È l’adozione in sé che non lo convince, non tanto per la mancanza di legami di sangue o per il fatto di dover un giorno rivelare magari una scomoda verità, altri sono i fattori che lo angustiano. È quello che viene prima, con tutta la sua pesante e spesso inutile burocrazia, l’attesa snervante senza certezze, l’essere costantemente posto sotto una lente di ingrandimento, il più delle volte meramente attenta alla forma e quasi mai alla sostanza.
Conosce alcune coppie di genitori adottivi. Gli hanno raccontato storie agghiaccianti sui colloqui con gli psicologi, esperienze che ti lasciano prostrato e pieno di dubbi profondi, rispetto ai quali senti l’affanno dell’impotenza.
Gli hanno descritto come i servizi sociali ed altri soggetti passino al setaccio la tua vita privata, gli amici, i parenti, il conto in banca; valutino se sei idoneo a fare il genitore in base al censo, come se la denuncia dei redditi fosse l’unica discriminante tra il poter essere un buon padre o meno!
Bah! È questo che lui non riesce a farsi andar bene e non sa come farlo capire ad Elena. Di sicuro lei la riterrebbe una scusa, gli attribuirebbe una marcata, scarsa sensibilità, lo accuserebbe di essere un egoista.
Proprio un bel casino! Ecco, ora, oltre ad essere stanco è anche di pessimo umore!
Sulla strada verso Pieve di Cadore incrocia rare auto, sono di gran lunga di più quelle che lo precedono, lo seguono, talvolta lo superano, dirette verso le Dolomiti, verso l’agognata vacanza o il semplice breve weekend; verso la parete da scalare o il sentiero da percorrere, il lago in riva al quale fare il più classico dei picnic, tempo permettendo, o il semplice vagabondare tra i tanti paesini sparsi tra i boschi.
Accende la radio, ma in mezzo a quelle valli trovare una stazione con una ricezione buona che la curva successiva non faccia scomparire è un’impresa titanica.
Schiaccia il tasto del lettore cd e la voce di Bono, il leader degli U2, riempie immediatamente l’abitacolo della sua Opel. Si mette allora a cantare nel suo inglese un pochino raffazzonato, battendo ritmicamente le mani sul volante e scuotendo il capo di lato.
Per fortuna è ormai arrivato. Mentre percorre le vie deserte del centro di Pieve di Cadore non può fare a meno di pensare a quanto questo posto gli mancherà.
Se lo avessero lasciato rimanere qui, fisso in questa base, non gli sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di andarsene, di lasciare le persone fantastiche con cui lavorava e questi luoghi che amava con tutto sé stesso. Ma quelli nella stanza dei bottoni continuavano a spostarlo di qua e di là nelle varie basi, come una pedina del gioco dell’oca, avanti ed indietro. Così, alla prima buona offerta che gli era capitata sottomano, aveva deciso di accettare, stanco di trovarsi in balia degli eventi senza poter decidere.
Il lavoro era pressoché lo stesso, con una remunerazione di poco inferiore, poiché si trattava in fondo sempre di stare tra i monti. Ma poter essere d’aiuto alla gente tra queste montagne, la sua gente e le sue montagne, era di certo assai diverso: sensazioni uniche che dove sarebbe andato, lo sapeva per certo, non avrebbe mai più potuto percepire sotto la pelle.
Mentre entra con la macchina nel parcheggio, fissa il suo sguardo sull’edificio della centrale e su quel 118 scritto a caratteri cubitali, rossi come il cuore che pulsava forte in quel momento. Sì, sicuramente questo posto gli sarebbe mancato da morire.
5
C’è una sveglia che sta suonando, ma non è la sua. Allunga un braccio verso la parte opposta del letto e la trova vuota. Come spesso succede, Francesco si deve essere svegliato prima e si è scordato di disinserire la suoneria. Si protende per spegnerla e poi torna a rannicchiarsi in posizione fetale. Meglio così, stava facendo un sogno bruttissimo!
Lui si sta già vestendo, lo sente armeggiare di là. Anna si stringe nelle lenzuola. Ieri notte hanno fatto l’amore in quel modo struggente e passionale che lei conosce bene. Lui fa l’amore sempre come se dovesse essere l’ultima volta, come se non ci dovesse essere un domani.
A dire il vero, Francesco mette la passione in tutte le cose che fa: nel suo lavoro, soprattutto, ma anche all’interno del Soccorso Alpino o in quel cavolo di progetto che lo terrà distante tre mesi! Così tanto tempo… e così distante! E se dovesse accadergli qualcosa?
Oh, via, ma perché pensare certe cose? Lo conosce, sa che è un uomo prudente che non lascia nulla al caso. È un medico, in fin dei conti, e andrà a lavorare in un ospedale, in un luogo insidioso certo, ma non a scalare l’Everest!
Si alza anche se è ancora presto, il sole non è ancora sorto e mancano oltre tre ore all’inizio del suo turno di lavoro. In cucina mette sul fuoco la moka da due, poi scosta le tende e, oltre il vetro che protegge l’intimità di quella casa e di quella coppia, osserva il buio ancora denso.
“Amore, già in piedi?” Lui le cinge le spalle da dietro e le soffia un bacio tra i capelli. Anna si abbandona al suo abbraccio.
“È suonata la tua sveglia… E poi non avevo più sonno…”
“Accidenti scusa, mi dispiace!”
“Non importa, meglio così… Stavo facendo un sogno strano!”
“Strano o brutto?”
“Mhmm… entrambe le cose, per dire la verità.”
“Che cosa hai sognato, scusa? Me lo vuoi dire?”
Le appoggia il mento sulla testa.
“Mah… non c’era un filo logico, era tutto così… così sconclusionato e mal associato! C’eri tu in cima ad una montagna avvolta da nuvole dense e nere. Inizialmente eri da solo, poi si sono unite altre persone, ma non ricordo chi fossero, non so nemmeno se li conoscevo, i volti erano sfumati e deformati dalla nebbia. Ad un certo punto è comparso un enorme uccello, sembrava un’aquila, ma era bianco con striature rosse, ti ha ghermito con i suoi artigli assieme ad altri tre e vi ha portati via in un baleno, oltre quelle nuvole diventate nel frattempo rosse. Gli altri rimasti attorno alla montagna piangevano. Tu però ridevi…”
Francesco strabuzza gli occhi. Lei lo vede riflesso nel vetro.
“Ah ah! Rido anche adesso! Qui i casi sono due: o non ti faccio più il branzino al sale alla sera o la smetti di immaginarti chissà quali scenari catastrofici su Haiti!”
Delicatamente la volta verso di sé per guardarla negli occhi.
“Andrà tutto bene! Capito?”
Anna sorride, annuisce con la testa e si scioglie dall’abbraccio per andare a spegnere il gas prima che il caffè trabocchi. Prende due tazze dall’armadietto, quelle con i manici a forma di farfalla, e le riempie di liquido nero e forte. Alla sua aggiunge un po’ di latte freddo.
“Con chi sei oggi sull’elicottero?”
“L’infermiere dovrebbe essere Loris. Poi l’altro giorno ho incontrato Filippo e mi ha detto che il 22 e il 23 c’era lui. Ai comandi Diego e Michele… una bella squadra, dai! Mi auguro sia davvero una giornata tranquilla, anche se ad agosto e di sabato, per di più, credo sia pretendere forse un po’ troppo!”
“Ho dato un’occhiata alle previsioni. Hanno messo forti temporali nel pomeriggio.”
“Perfetto, chissà che a nessuno venga la brillante idea di mettersi nei guai, non mi va di fare docce fuori programma!”
Francesco si siede, beve il caffè a piccoli sorsi gettando uno sguardo distratto al giornale del giorno prima: elezioni in Afghanistan, Usain Bolt che vince ai mondiali di atletica… Nella cronaca locale le solite notizie di poco conto: un piccolo incidente, furti nelle auto fuori da un cimitero, l’elenco delle sagre paesane dove trovare della buona birra e piatti tipici.
“Come vorrei svegliarmi una mattina e trovare un titolo del tipo: “Approvato in via definitiva il servizio di elisoccorso notturno nelle Dolomiti Bellunesi!”
“Avanti di questo passo va a finire che lo tolgono l’elisoccorso…”
“Sì, come no! Ci devono solo provare! Che rinuncino ai loro privilegi prima di tagliare i fondi ad una realtà operativa che risulta essenziale per quanti vivono in montagna! È un servizio salvavita senza il quale quassù si crepa davvero! Credo sia stato più volte ampiamente dimostrato che si tratta di un’attività d’eccellenza che solo un pazzo potrebbe pensare di levare a questa comunità!”
“Sono convinta che finché ci sarete tu e il primario Castelli quell’elicottero bianco continuerà a volare indisturbato tra queste valli!”
Con un ultimo sospiro, Francesco chiude il giornale, lo getta sul divano, prende il borsone e si avvia verso l’uscio.
“Non ti pare di dimenticare qualcosa?” – lo rimprovera Anna piccata.
Lui torna indietro comprendendo di essere stato quanto meno frettoloso, la bacia a lungo sulle labbra e prima di chiudere la porta le regala un sorriso radioso e pieno di calore.
6
Nel periodo estivo, da giugno a settembre, l’orario del servizio di elisoccorso dovrebbe basarsi sulle cosiddette effemeridi, ovvero prendere avvio al sorgere del sole e terminare al suo tramonto, anche se magari è una giornata nuvolosa e il sole manco si vede. Tradotto: più di dodici ore di lavoro al giorno per diversi mesi, partire da casa col buio e farvi ritorno col buio. In realtà, però, dodici ore sono anche il tempo massimo di lavoro per i piloti di elicottero. Quindi, in definitiva, in estate, i turni di lavoro vanno dalle otto del mattino alle otto della sera, salvo che non vi siano emergenze che costringono, giocoforza, a qualche straordinario. Di conseguenza, anche medici, infermieri e tecnici del Soccorso Alpino seguono questo orario.
Di notte niente, per questioni di carattere normativo, con l’oscurità, l’elicottero resta a terra. Talvolta, anche la spicciola burocrazia compromette o limita servizi fondamentali per il territorio, poiché volare di notte permetterebbe di effettuare non solo trasferimenti da piazzola a piazzola abilitata al volo notturno, ma anche interventi diversi e più sicuri, soprattutto con l’utilizzo dei visori notturni che paesi più civili del nostro già da anni impiegano con successo.
In montagna, gente che si mette in pericolo o che ha la necessità di essere ospedalizzata nel minor tempo possibile, soprattutto nei periodi estivi e invernali di massima affluenza turistica, è presente ventiquattro ore su ventiquattro!
Ma non siamo in Svizzera, pur distando questo Paese solo un paio di centinaia di chilometri in linea d’aria. Ce ne sarebbero di storie da raccontare di persone costrette ad aspettare l’alba su uno spuntone di roccia al freddo, di soccorritori partiti di notte al buio per portare aiuto e generi di conforto ad alpinisti bloccati in parete in attesa della luce del giorno. O di semplici persone, con patologie importanti, obbligate a stare in ambulanza anche più di due ore solo per ricevere le cure più appropriate per poter salvarsi. Ce ne sarebbero…
Ogni tanto qualche sperimentazione viene effettuata. Per un periodo, di solito qualche mese, caso eccezionale un anno, l’elisoccorso è attivo anche di notte.
Ma in definitiva, nonostante tutte le battaglie, nonostante i pugni battuti sul tavolo ora di questo ente, ora di quel politico, nonostante le delibere e le varie enunciazioni di principio che a queste ultime spesso si associano, l’elisoccorso notturno sembra non rientrare tra i servizi di cui questa provincia ha bisogno. Pare, diversamente, che se manifesti un’emergenza seria e abiti in un paesino isolato su qualche passo montano e l’ospedale provinciale più vicino disti oltre settanta chilometri di strada tortuosa e magari innevata, tu sia sacrificabile in nome del risparmio sulla spesa pubblica. Ma se l’ospedale a cui devi ricorrere è quello a valenza regionale, allora i chilometri si duplicano con buona pace per la tua patologia. Poi ci si chiede perché la montagna si va spopolando!
A tutto questo pensa Loris mentre parcheggia la macchina nel piazzale dell’Ospedale di Pieve di Cadore. A questo e al fatto che il piede destro gli fa un male cane dopo la partita a calcetto di ieri sera. Dovrebbe appendere le scarpe al classico chiodo perché non ha più vent’anni, anzi ne ha quasi il doppio e sta per diventare padre, ma dentro si sente ancora un ragazzino e tirar calci a un pallone di cuoio è una delle poche cose che gli è sempre riuscita piuttosto bene. Un po’ di ghiaccio avrebbe di sicuro risolto il problema, per lo meno momentaneamente. In base alla sua pur modestissima diagnosi, si trattava solo di una gran botta, al limite poteva chiedere al medico di turno di dargli un occhio. A proposito, chi c’era di turno? Ah già, Francesco…
Prende dal sedile posteriore la borsa e si avvia zoppicante verso l’ingresso della sede del Suem 118, ma prima di metter piede sulla passerella d’acciaio che porta all’ingresso si ferma. Alza gli occhi ai contorni delle montagne e rimane per un po’ a guardarle estasiato, anche se le ha viste altre mille e più volte.
Non ci si fa mai l’abitudine allo spettacolo della luce che prende possesso della valle ancora mezza addormentata. In montagna, basta una nuvola, un raggio di sole obliquo, un velo di foschia e tutto assume un aspetto diverso. Talvolta, basta cambiare il punto di vista, anche solo di poco.
Lui è fortunato, spesso gli capita di ammirare le montagne da un osservatorio privilegiato, un luogo da dove queste meraviglie naturali appaiono in tutta la loro maestosità.
Forse succederà anche oggi, sa che non dovrebbe sperarlo perché ciò significa che qualcuno si è procurato un infortunio o si trova in qualche modo in difficolta o in pericolo, eppure ogni volta che viene a Pieve di Cadore lo fa con la speranza di volare, inutile negarlo. Forse dovrebbe provare qualche senso di colpa se il suo è un sentire genuino?
Un ultimo sguardo al monte Tudaio, laggiù in fondo, appena velato da qualche nube biancastra, prima di varcare la porta bianca.
“Forza Loris, entriamo!”
7
“Cosa c’è, stai male? Sei pallido, bianco come una mozzarella!”
Diego lo sta osservando appoggiato allo stipite della porta della piccola cucina. Ha i suoi inseparabili occhiali da sole alti sulla testa e il colletto bianco della camicia che spunta dalla tuta rossa.
“Apro la confezione delle brioches ancora calde, morbide e rigonfie di marmellata, sono davvero il rimedio per tutti i mali! Per la maggior parte almeno… Dai, andiamo di là così mi racconti. Fatto bisboccia ieri sera?”
Michele si alza di malavoglia dalla panca e segue l’altro nella stanzetta riservata ai piloti.
“No, no, sto bene, sono solo un po’ stanco, ho dormito poco…”
La risposta sembra non soddisfare il collega.
“Cosa c’è che non va? Dai, parla!”
Diego si ferma sulla porta, Michele si sdraia su uno dei due piccoli divani rossi e fissa il soffitto.
Si conoscono da tanto tempo, loro due. Lavorano per la stessa ditta, la Fly Dolomiti e, quindi, si sono ritrovati spesso seduti su un elicottero uno di fianco all’altro, specie in passato. Ultimamente è successo un po’ più di rado e se pensa che tra poco non capiterà più gli viene un groppo in gola difficile da sciogliere. Condividono le stesse passioni: elicotteri e montagne, aria e terra, e lavoro per la gente che in quelle montagne ci vive. Se c’è una persona con cui sente di potersi confidare, quella è proprio Diego.
Decide di farlo senza tanti preamboli o lunghe perifrasi, andando subito al sodo.
“Elena vuole che adottiamo un bambino. Lei non può averne. Abbiamo fatto tutti gli esami e a meno di un miracolo…”
L’altro si porta una mano davanti alla bocca, contrito.
“Cazzo Michele, mi dispiace, davvero! Mi sono sempre chiesto cosa aspettavate ad aprire il cantiere, ma non immaginavo… L’adozione non è certo una strada facile e non è nemmeno di breve attuazione, ma se è quello che volete entrambi… O vuoi invece dirmi che tu sei contrario?”
“Non è che sia contrario all’adozione in sé. Quello che non mi va è che certi personaggi si mettano a frugare nella mia vita, nei miei affetti… il solo pensiero mi disgusta! Per poi magari, alla fine, sentirmi rispondere che non sono adatto!”
Diego ci pensa un poco. Quando è perso nei suoi ragionamenti si guarda sempre la punta delle scarpe, come se là ci fossero scritte tutte le verità del mondo.
“Comprendo il tuo punto di vista, ma se davvero vuoi un figlio senza sconfinare in pratiche illegali, temo tu non abbia altra scelta… Figurati poi se non vi lasciano adottare un bambino! Siete una coppia affiatatissima, avete entrambi un ottimo lavoro, una bella casa, nessun problema di salute. Rispondile di si, subito, Michele, aver un figlio è la cosa più bella che ti possa capitare. I figli ti sorprendono ogni giorno, un po’ come la vita. Anzi, sono la vita stessa. Non sarà sangue del tuo sangue, non avrà il tuo colore di capelli o gli occhi verdi della madre, ma già dalla prima volta che lo stringerai tra le braccia sentirai definirsi da subito un legame speciale! “
Diego torna alla punta delle sue scarpe e Michele alla ragnatela nell’angolo. Dalla cucina si sente l’inequivocabile profumo della sfoglia. Diego sparisce e torna poco dopo con due grossi cornetti ripieni di appiccicoso liquido rosso, appoggiati sul vassoio assieme a due tazze di tè appena fatto.
“Nella tua ci ho messo comunque già lo zucchero. Ce n’è a sufficienza anche per gli altri, quando arrivano, non credo vogliano farsi il caffè con quella caffettiera enorme, bisogna davvero che si decidano a prenderne una più piccola!”
Michele si mette a sedere, osserva il panorama fuori dalla finestra. Oramai la luce ha rischiarato l’intera vallata, le nuvole sembrano però padroneggiare il cielo velato in profondità di un grigio chiaro. Gli viene in mente una frase, letta non sa più dove, che però gli è rimasta da sempre impressa nella memoria: “per poter vedere l’alba, bisogna sempre attraversare la notte.”
Vuota la tazza in due sorsi, si alza e si porta di fianco a Diego.
“Mi hai convinto! Quando torno a casa, stasera, dirò a Elena di informarsi sull’iter necessario, anche se sono convinto che già lo abbia fatto.”
La pacca che gli arriva sulla spalla è di quelle ben assestate. “Bravo vecchio, così mi piaci! Sempre avanti! Adesso però facciamo qualcosa di produttivo che non sono venuto quassù per stare a chiacchierare tutto il giorno, anche perché parlare con te fino alle otto di stasera… sarebbe davvero palloso!”
“Mamma mia, in vena di complimenti stamattina, a quanto vedo e, soprattutto, sento!”
“Lo sai che in fondo ti amo follemente! Dai sfaticato, andiamo dagli altri e finito il briefing diamo una pulitina esterna all’elicottero!”
“Ma dai, tanto nel pomeriggio piove!”
“Ecco, lo vedi che non hai mai voglia di fare una mazza? Andiamo di là intanto, così vediamo chi c’è!”
Scuotendo la testa più volte, Michele segue il collega lungo il breve corridoio.
8
“E tu che ci fai qui? Non doveva esserci Filippo?”
Francesco prende la giacca dal sedile posteriore dell’auto. Sarà pure ancora agosto, ma a Pieve di Cadore di primo mattino fa già fresco. Stelvio lo aspetta in mezzo al parcheggio semideserto con un sacchetto di carta in mano e lo zaino nell’altra. “E’ a letto con la schiena inchiodata. Gliel’ho detto che non ha più l’età per certe cose…”
“Quali cose?” – chiede accigliato il medico, poi comprende. “Ah… sì, ok! Beh, poverino mi dispiace… soprattutto mi dispiace il dover sopportare te… ah ah ah!”
Stelvio alza leggermente le spalle e fa una smorfia buffa, mentre tiene aperta la porta della centrale del 118 per far entrare l’altro. In fondo al corridoio, c’è la macchinetta del caffè. Ci infila la sua chiavetta.
“Toh, dottore” – dice facendo un ironico mezzo inchino – “Prendilo con tanto zucchero, mi raccomando, così vediamo se ti addolcisci un po’!”.
Tra loro due queste scaramucce sono all’ordine del giorno. Si conoscono da anni, ma non è sempre stato così. Anzi, il loro primo incontro si era concluso con una memorabile litigata, nata in seguito ad una banale discussione su quale fosse la miglior marca di sci da discesa. Non si erano parlati per mesi sebbene le loro strade si fossero incrociate spesso. Il loro dialogo si era limitato alle normali comunicazioni imposte dal servizio e dal lavoro sull’elicottero. Poi c’era stata una cena, il compleanno di qualcuno del giro dell’elisoccorso e, da quella data, le cose erano inaspettatamente cambiate. È noto che la birra ha un sacco di controindicazioni, ma anche una grande qualità: dopo un certo numero di bicchieri fa diventare più loquaci, più aperti o forse solo un po’ più idioti. Certamente sinceri, mutuando in parte il detto latino che in realtà parlava di vino.
Quella sera, quel certo numero di bicchieri Stelvio e Francesco lo avevano ampiamente superato, con il risultato che erano diventati ottimi amici al punto da non disdegnare – era successo una decina di volte – qualche uscita alpinistica assieme.
Malgrado ciò, sulla marca degli sci non si erano comunque più accordati, ognuno continuava a pensarla a modo suo.
Oltre una porta a vetri scorrevole i box della centrale sono già in piena attività. Francesco entra e passa a salutare tutti uno per uno. Stelvio fa il suo ingresso poco dopo con un “buongiorno” generale, raccogliendo contemporaneamente da una scrivania un foglio al quale dà una rapida occhiata prima di porgerlo all’altro.
“Le previsioni dicono temporali nel pomeriggio, anche piuttosto violenti, hai sentito?”
“Ho sentito, ho sentito… me l’ha detto Anna stamattina. Spero vivamente che le previsioni le abbiano ascoltate anche tutti quelli dalla bassa che intendevano farsi il picnic in montagna o la passeggiata fino al rifugio per mangiare polenta e capriolo!”
“Ah caro mio… quando il turista ha deciso di effettuare la sua gita, cascasse il mondo, chi lo ferma? Ormai li dovresti conoscere i polli con cui hai a che fare!”
“A proposito di polli… gli altri componenti dell’equipaggio sono quelli che dovevano essere o ci sono ulteriori cambi di personale?”
“Michele e Diego confermati, ho visto le macchine nel parcheggio. E Loris in arrivo” – dice indicando con un movimento del capo la finestra che dà sul piazzale. Il medico si sposta per osservare a sua volta.
“Ma che fa lì impalato? “
“E che ne so, avrà le visioni! Toh, ecco che viene”
Qualche secondo dopo una testa coronata da riccioli scuri fa capolino: “Scusate… buongiorno a tutti!”
L’infermiere ha l’aria di chi avrebbe bisogno di qualche ora di sonno supplementare. Si dirige dritto alla macchinetta del caffè, dove la chiavetta di Stelvio pende ancora dalla feritoia in cui è inserita. Schiaccia il pulsante del caffè macchiato e attende con aria rassegnata che il segnale acustico lo avvisi che può finalmente prelevare il bicchiere. Poi, di colpo, cambia espressione.
“Oh, porca putt… Chi devo ringraziare?”
Mortificato, si guarda in giro con la chiavetta in mano, accortosi tardivamente che non è di certo la sua. La lancia a Stelvio che, col braccio proteso verso la sua direzione, reclama la proprietà dell’oggetto.
“A buon rendere…”
“Si ok, la prossima volta tocca a me offrire!”
“Eh, capirai, chissà quando succede di nuovo che ci troviamo noi due!”
“E quante storie per un caffè! Ti pagherò una birra stasera a fine servizio. “
“Ma dai che scherzo! Quand’è invece che mi ricapita un turno con tua sorella?”
“L’ho vista ieri, in ospedale a Belluno, Noemi” – si intromette Francesco – “Le ho detto che ero decisamente più contento se fosse stata lei al posto tuo.”
“Non avevo dubbio alcuno, doc!”
“Perché vedi, Loris, sei anche un bel ragazzo, ma non sei il mio tipo!”
“Caro dottore, lasciami dire che la cosa mi rende immensamente felice!”
Zoppicando leggermente, prende la strada della saletta loro riservata, dove, una volta arrivato, guadagna una sedia e ci si lascia cadere pesantemente. Francesco, allora, gli si para davanti a braccia conserte con piglio severo.
“Cosa hai combinato a quel piede? Vuoi che ci diamo un occhio?”
“Non serve, non è niente, partita a calcetto ieri sera… Ho preso un paio di botte.”
“Quando non si è capaci…” – butta là Stelvio con uno sguardo eloquente, sbracandosi sulla sedia davanti al pc. Dall’altra stanza Michele e Diego arrivano a completare l’equipaggio del 22 agosto 2009.
9
Falco è bianco, un bianco color madreperla, ed ha il naso rosso, come i pagliacci del circo o quello dei clown che allietano le giornate dei bambini in ospedale. Ma un po’ di colore rosso ce l’ha anche sulla coda, sul tettuccio, sui braccetti delle ruote. Poi c’è quella linea sottile e sinuosa che dal musetto arriva fino alla pinna sotto il rotore di coda e infonde, in chi guarda, una sensazione di velocità.
Un “A109S Grand” veloce deve esserlo, poiché quando qualcuno chiama deve correre in suo aiuto, ovunque questo si trovi, nel raggio di svariate decine di chilometri.
Lo conoscono tutti in queste vallate, a partire dai bambini che gli fanno ciao con le manine quando lo vedono passare, gli adulti che quando lo scorgono in cielo comprendono che c’è una persona in difficoltà, gli anziani che si fanno il segno della croce e pregano perché tutto vada per il meglio.
Il rosso di Falco è un rosso acceso, che si vede da lontano, che si staglia vivido contro un cielo terso, contro il grigio o il giallo della roccia. Rosso come i cuori degli uomini e delle donne che ogni giorno sono pronti a salirci e ad unire le loro forze per salvare vite umane. Rosso come il sangue che spesso, troppo spesso, tinge queste strade, questi sentieri, queste crode e che, molte volte, resta l’ultimo, tragico, segno su questa terra di una vita spezzata.
C’è anche del blu, sulla fusoliera e sulla coda; il blu della rotella del telefono stilizzata entro cui compare il numero 118; il blu della stella della vita, col serpente arrotolato sul bastone; il blu della parola “Dolomiti” nel logo della società Fly Dolomiti e, infine, il logo del Soccorso Alpino su ambo i lati della pinna con quello di Dolomiti Emergency. Blu, come il cielo nelle terse serate estive, quando il sole si è appena coricato oltre l’orizzonte sgombro di nubi.
Il vero “nome” di Falco è in realtà I-REMS, che altro non è che la marca di immatricolazione e nazionalità, cioè una specie di targa dell’elicottero.
“Buongiorno caro mio! Dormito bene?”
Diego scuote la testa. L’abitudine di Michele di parlare con l’elicottero proprio non riesce a capirla. Fa dei discorsi così articolati da sembrare che stia conversando con una persona in carne e ossa e lo fa anche così seriamente da essere intimamente convinto che il velivolo possa in qualche modo rispondergli, quasi animato da qualcosa di metafisico.
“Diego, salutalo, lo sai che altrimenti poi ti tiene il muso tutto il giorno.”
Il pilota si vergogna come un cane, ma una pacca sulla fusoliera a Falco non gliela nega mai neanche lui. Un po’ per scaramanzia, un po’ perché in effetti è come fosse uno di famiglia, in special modo per lui che lo conosce come le sue tasche e sposta le mani sui comandi come se stesse accarezzando il corpo di una bella ragazza.
Ancora con mezza brioches in mano arriva anche Stelvio a dare il suo contributo. “Dai bello, fuori, così respiri un po’ di aria fresca” – dice assestando due sonore pacche sul muso rosso del velivolo.
“Un po’ di delicatezza, perdio, con quei tuoi badili rischi di far saltare via i rivetti!” – gli urla Michele mentre si prepara a spingere.
Fuori dalla sua cuccia,con le pale del rotore leggermente piegate verso il basso e sotto il cielo uggioso, Falco sembra un cane bastonato.
“Sei sempre convinto che lo dobbiamo pulire?” – chiede Michele passando un dito sulla vernice. Per tutta risposta, Diego gli porge uno straccio. Prima di poter fare lo stesso con Stelvio, questi si dilegua lesto come un gatto, prendendo a pretesto una telefonata da fare urgentemente.
“Ma tu guarda! Quando c’è da metterci un po’ di olio di gomito spariscono sempre tutti!”
Michele, in cima alla scaletta, armato di straccio e bottiglietta del detergente per vetri ci dà dentro come se dalla lucentezza dell’elicottero dipendesse la sua stessa capacità di volare.
“Guarda che me lo consumi se continui così” – gli grida Diego alle prese con la pulizia del rotore di coda.
“Me lo consumi… mica è tuo! Vedi, io almeno l’iniziale del mio nome qui ce l’ho, “i”, “erre”, “e”, “emme” come Michele, “esse”. Della “di” come Diego nemmeno l’ombra! Quindi zitto e sfrega, visto che lo hai voluto pulire adesso deve essere lucido! Hai presente la testa di Fulvio? Uguale!”
“Ma povero Fulvio, se ti sente… e per fortuna siete amici!”
“Beh, non è nient’altro che la semplice verità! A proposito di amici! Non possiamo continuare, noi due, a bere litri di tè o caffè solo perché è peccato buttarlo via! Se gli altri preferiscono avvelenarsi con quello della macchinetta, lascia fare! Son tutti mezzi dottori, sapranno il fatto loro!”
“Dai, non brontolare sempre, lo vedi che se non altro hai ripreso colore? E poi te l’ho detto che serve una caffettiera più piccola!”
Presi dal loro scambio di battute, i due non si sono accorti dell’arrivo di un’altra persona.
“Voi due siete come cane e gatto! Anzi, mi sembrate Vianello e la Mondaini! Potremmo fare una sit-com, “Casa Suem”.
Lo straccio manca di poco il nuovo arrivato.
“Sandro, razza di un lavativo, era ora che ti facessi vedere! Finite le ferie?”
“Spiritoso… comunque sono tornato come nuovo” – dice piegando più volte il ginocchio destro – “Operazione perfettamente riuscita! Voi che mi raccontate? Fatto qualche bell’intervento?”
Michele scende dalla scaletta e avvicinandosi all’uomo gli afferra il mento con una mano e gli sposta la testa prima a destra poi a sinistra.
“Vedi un po’ che abbronzatura! Secondo me sei stato al mare, altro che menisco… Cosa vuoi che ti raccontiamo… io ancora due giorni e dopo saluto sta gabbia di matti!”
“Che stronzo! Più ci penso e meno ci credo! Non sai quanto mi dispiace!”
Il viso del tecnico si rabbuia. “Dispiace anche a me, un sacco! So che sto forse facendo uno sbaglio, ma ormai…”
“Se dove vai non ti trovi bene, torna! Credo proprio che per te le porte saranno sempre aperte!”
“Dici? Mah…!”
Diego interviene cambiando discorso, la piega presa dalla conversazione non gli piace per niente.
“Sandro, non ti ho mai ringraziato per avermi portato con quei tuoi amici matti giù per quel torrente, a fine giugno, mi sono proprio divertito!”
“Bene, mi fa piacere, quando hai tempo e voglia possiamo ripetere l’esperienza, cambiando forra logicamente!”
“Guarda Sandro, volentieri! Grazie ancora! Michele, magari stavolta puoi venire pure tu, è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita, credimi!”
Il pilota ha gli occhi che si illuminano al solo ricordo di quella bella giornata.
“Voi siete fuori come i gerani sul balcone, ve l’ho detto mille volte che non so nuotare e che con l’acqua non vado d’accordo!”
“Se è per quello non sai nemmeno volare, però sei spesso per aria… Vado sopra a salutare il resto della ciurma. Chi c’è di bello?”
“Stelvio, dei tuoi.”
Sandro è il coordinatore dei tecnici di elisoccorso.
“C’è anche il tuo caro amico…” – dice Michele con un sorriso allusivo che gli occupa mezza faccia.
L’altro aggrotta la fronte senza capire, poi spalanca gli occhi quando comprende il riferimento. Si sfrega le mani.
“Francesco? Davvero? Benone…”
Entrambi sono appassionati di moto e quando si vedono passano ore a parlare di nuovi modelli, motori, tecniche di guida, viaggi e quanto abbia a che fare col mondo delle due ruote. Già pregustando la chiacchierata, Sandro mima il “ciao” con entrambe le mani e sparisce di corsa su per la stradina che porta alla piazzola.
“Monsieur…” – dice Diego porgendo a Michele il suo straccio raccolto da terra
10
Il consueto controllo dei materiali e dei vari dispostivi ha portato via a Stelvio una ventina di minuti. Il resto della mattinata è trascorso tranquillamente tra la lettura di qualche dispensa tecnica e qualche chiacchiera. Ora, è alle prese con una partita al solitario sul computer, quando, all’improvviso, il cercapersone si mette a suonare con il solito stentoreo cicalio. Un rumore sempre eguale, ma al quale non ci si abitua mai abbastanza. Contemporaneamente, anche quello di Loris stravaccato sul divano nella stanza dei piloti si fa sentire. Pochi secondi dopo, Francesco esce dal bagno armeggiando con la cerniera dei pantaloni.
Tutti, tranne il pilota, indossano già l’imbrago e si spostano nella stanza oltre la porta a vetri.
In massimo tre minuti, soprattutto in presenza di codici rossi, indicanti la massima gravità, l’elicottero deve lasciare la piazzola dirigendosi verso la zona di intervento.
L’equipaggio ascolta la telefonata in corso mentre il tecnico di centrale operativa del Soccorso Alpino, che nella stagione estiva e in quella invernale coadiuva il personale del 118 nella gestione degli interventi di propria competenza, ha già raccolto le informazioni necessarie e le passa velocemente a Stelvio. Si tratta di un intervento sul Passo Giau: una donna si è procurata un trauma cadendo in malo modo lungo un sentiero, quasi certamente una frattura in base a quanto dedotto dal triage effettuato pochi secondi prima. Diego e Michele infilano di corsa la porta, gli altri li seguono con gli zaini e l’attrezzatura.
Tlac tlac tlac tlac tlac tlac. Le mani del pilota corrono veloci su leve e pulsanti. Non gli servirebbe nemmeno guardare dove mette le dita poiché sono gesti compiuti centinaia di volte. Poi parte il sibilo sempre più acuto delle turbine, un suono che in breve diventa una sorta di ululato talmente intenso che viene istintivo portarsi le mani sulle orecchie. Le pale si muovono inizialmente lente: sembra quasi non ne abbiano voglia di fare il loro dovere, cioè girare per sostenere il peso dell’elicottero. Poi, con l’aumento della potenza, il rotore principale inizia a mulinare sempre più veloce e a quel punto non si riesce più a distinguere una pala dall’altra. Il flusso d’aria che viene a crearsi, soprattutto se l’elicottero è posizionato vicino ad ostacoli, è molto forte e rende difficoltoso finanche il respiro se ci si trova nelle immediate vicinanze. Inutile urlare o gridare: se non si ha l’interfono ci si deve esprimere a gesti.
Ai lati della piazzola gli operatori antincendio sono pronti a intervenire in caso di necessità che, a ben guardare le statistiche tratte da casi reali, è solo una remota possibilità. Ma è un’attività obbligatoria per alcune piazzole che costringe all’impiego di uomini e attrezzature e al conseguente inutile esborso di denaro da parte della struttura pubblica.
Tutti ai loro posti, concentrati… mano al ciclico, gioco sui pedali e via! Falco si stacca dal suolo sicuro e veloce. Lo spostamento d’aria, a pochi metri di distanza, costringe a metter mano a berretti, occhiali e qualsiasi altro oggetto di media pesantezza che rischia di essere spazzato chissà dove.
L’elicottero in pochi istanti si libra in volo sotto il tocco esperto di Diego, danzando leggero in aria. Per chi resta a guardarlo da terra è sempre e comunque un’emozione, mista magari ad un po’ di invidia per tanta professionalità e per non poter essere a bordo. Chi non se lo farebbe ogni tanto, un giretto per vedere il mondo dall’alto? Ma non troppo in alto, come sugli aerei, che alla fine non si riescono a distinguere le cose! Che fortunati i piloti che possono ammirare panorami mozzafiato e osservare le montagne da angolazioni e da prospettive del tutto diverse… Fortunati e tosti.
Quelli che si alternano ai comandi di Falco sono persone speciali. Probabilmente lo sono tutti i piloti di elicottero, ma questi ancora di più, perché incunearsi in mezzo ai canaloni, risalire una parete dalla base alla cima, restarsene fermi in hovering a poche decine di centimetri dalle rocce, è difficile, maledettamente difficile, specie quando non c’è tempo da perdere, quando si deve fare in fretta perché dalla tua velocità dipende la vita o la morte di una persona.
Ma un buon pilota, per poter essere tale, ha bisogno di un bravo tecnico aeronautico, che diventa allora il suo braccio destro, un terzo occhio sul mondo attorno. Tra pilota e tecnico deve esserci il massimo affiatamento, ci si deve capire attraverso un solo sguardo o un solo, sincopato gesto.
Michele è uno dei migliori, perché ha un passato da tecnico di elisoccorso e fa parte della Stazione del Soccorso Alpino di Belluno. Può non essere subito evidente, ma questi fattori comportano il fatto di possedere una marcia in più, competenze che magari altri, pur efficientissimi, non hanno. Una visione diversa delle cose che gli permette di interpretare la situazione più rapidamente e in modo più efficace, soprattutto negli interventi in parete. Michele è il compagno ideale anche per la sua bontà e la sua simpatia, ha quel sorriso sempre pronto che riesce a raddrizzare anche le giornate più storte. Michele è Michele, non per niente gli vogliono tutti bene.
E anche se oggi è un po’ più pensieroso del solito, quello che rivolge a Diego mentre Falco si leva in volo è il solito pollice alzato per dire che va tutto bene, è tutto ok.
Andiamo.
11
“Com’è che si dice quando al tramonto le montagne assumono tutte le sfumature del rosso e del rosa, quasi confondendosi in un altro straordinario colore? So che c’è un nome che indica il fenomeno, ma ora non mi viene…”
La giovane donna vestita in costume tipico si china leggermente per appoggiare un bicchiere di birra sul tavolino. “Enrosadira!” – pronuncia con decisione, mentre con movimento elegante porge alla signora di fronte la lista degli infusi – “Ma credo che stasera non ci saranno tante occasioni per osservarla…”
Gira lo sguardo verso l’ampia vetrata imitata dalla coppia di clienti. “Eh, mi sa proprio di no…” – sospira l’uomo.
Fuori una pioggia battente sta flagellando da qualche minuto un Corso Italia pressoché deserto. Fatta eccezione per una coppia di ragazzoni chini sotto enormi zaini e inutilmente protetti da dei poncho gialli ormai fradici. Camminano lenti, rasenti ai tanti negozi, cercando un poco di riparo sotto le sporgenze di tetti e terrazze che si affacciano sul corso più famoso delle Dolomiti.
L’uomo si porta alle labbra il bicchiere e beve un abbondante sorso.
“A che ora pensi che potremmo partire domani?” – chiede alla donna.
Lei sbuffa: “Dobbiamo proprio?” – poi attira con un gesto appena accennato l’attenzione della cameriera per ordinare.
Questa settimana a Cortina è proprio volata! Non ci erano mai stati prima, pur essendo amanti della montagna. La fama di meta adatta solo per vip o gente con conti in banca con svariati zeri li aveva sempre fatti desistere. Quest’anno, però, complice un’inattesa entrata extra piuttosto sostanziosa, avevano deciso di togliersi lo sfizio, col risultato che già avevano detto all’albergatore di riservare una stanza anche per il periodo invernale.
Mentre con l’auto percorrevano la valle del Boite verso la loro destinazione, era parso subito piuttosto evidente il motivo per cui Cortina era conosciuta nel mondo come “la perla delle Dolomiti”. La verde conca in cui è adagiata la cittadina è circondata da un maestoso proscenio di montagne che sembrano sfidarsi a quale sia la più bella: Antelao, Croda da Lago, Lastoi di Formin, Nuvolau, Averau, Cinque Torri, Tofane, Cristallo, Pomagagnon, Col Rosà… Vette, guglie e torrioni di roccia, così marcatamente diversi dalle montagne della Val d’Aosta che sono soliti frequentare. Una bellezza difficile da descrivere, piuttosto da provare di persona.
Nei sette giorni di permanenza nella conca ampezzana e, in un paio di occasioni, in zone contermini, hanno compiuto numerose escursioni in posti di incantevole bellezza, quali il Lago del Sorapiss, la piana di Mondeval e le cascate del Rio Fanes. Sono stati sul Lagazuoi e intorno alle Tofane più volte per visitare i luoghi ove tanti giovani soldati sono morti nella Prima Guerra Mondiale.
Si sono concessi anche un po’ di vita mondana, prendendo parte ai numerosi eventi che ogni giorno animano il centro e non disdegnando anche qualche buona cena nei migliori ristoranti della zona.
Ci sarebbero ancora tante cose da fare e tanti posti da vedere, ma devono rimandare, purtroppo c’è un negozio da mandare avanti e un capufficio che ha già telefonato due volte per assicurarsi che lei lunedì sia puntualmente davanti alla sua scrivania.
“Potremmo partire subito dopo pranzo, così se non piove possiamo fare un salto a vedere il trampolino!”.
Quella struttura che li aveva accolti sulla sinistra della strada, al loro ingresso in paese, l’aveva affascinata e le sarebbe piaciuto fare alcune foto. Prima di partire per la loro vacanza si erano documentati un po’ per non fare la figura degli sprovveduti e sapevano che lì si erano svolte le Olimpiadi Invernali del 1956 che avevano contribuito a far conoscere il nome di Cortina ovunque. Le persone del posto con le quali avevano avuto modo di parlare, si rammaricavano che gli inverni non fossero più come quelli di allora. Il cambiamento climatico si stava facendo sentire anche in montagna, prova ne era quel temporale che sembrava un monsone e che ora, per fortuna, pareva stesse scemando.
“Questa tisana alla melissa è davvero deliziosa” – sentenzia la donna assaporando l’ultimo sorso.
“Andiamo?”
Mentre si stavano avvicinando alla cassa, lui non aveva potuto fare a meno di notare l’espressione tesa della ragazza che li aveva serviti e che ora stava parlando al telefono.
“E’ successo qualcosa?” – chiede, sperando di non risultare troppo sfacciato o inadeguato alla situazione.
“Niente di grave, è venuta giù una frana su al Passo Tre Croci e il mio ragazzo mi ha avvisato che deve andare a controllare, lui è un Carabiniere.”
“Accidenti, addirittura una frana? Speriamo non ci siano persone coinvolte!”
“Eh, speriamo proprio… fanno 12 euro, grazie!”
L’uomo estrae dal portafoglio una banconota e la consegna alla ragazza che mentre gli dà il resto lo saluta con un “arrivederci” che lui dubita fortemente potrà tramutarsi in seguito in una qualche realtà. “Tutti quei soldi” – pensa tra sé – “per un tè e una birra sono decisamente troppi!”
Quando escono dal locale non piove più e la gente sta rianimando il Corso. Un uomo accucciato col dito puntato verso il cielo indica al figlioletto un elicottero bianco che sta passando sopra di loro.
12
Gli occhi sono spalancati. Le pupille si muovono rapide, si fissano per qualche secondo sul monitor, poi sui tubi dell’ossigeno, infine sui loro visi.La donna trema leggermente, si morde nervosa l’interno della guancia, è visibilmente preoccupata, forse più per il volo in elicottero che per la sua gamba.
L’hanno recuperata in hovering lungo il sentiero che dal Passo Giau porta verso la Piana di Mondeval. È un sentiero frequentatissimo che conduce in uno degli ambienti più suggestivi delle Dolomiti, una spianata verdeggiante che digrada dai Lastoi di Formin verso la Val Fiorentina.
Sotto uno dei grandi massi erratici che la caratterizzano, Vittorino Cazzetta, escursionista e notevole studioso di preistoria locale, scoprì nel 1985 i resti di un cacciatore del mesolitico accompagnato dal suo ricco corredo funerario.
Forse questa era la meta della donna che, però, su un modesto salto di roccia reso umido dalla pioggia, era scivolata malamente, rompendosi l’arto destro poco sopra la caviglia.
Francesco ride di gusto mentre, con l’aiuto di Loris, fissa la barella all’interno dell’aeromobile.
“Cosa c’è da sghignazzare?” – chiede Stelvio nell’interfono mentre sale a bordo. “Mi ha chiesto se questo affare è sicuro! Le ho risposto di stare tranquilla che non cade! Ma si è fatta il segno della croce lo stesso…”
Stelvio regala alla donna un ampio sorriso mentre si siede sul sedile di fronte a lei, iniziando a rassicurarla con qualche aneddoto intervallato da qualche battuta. È una domanda che fanno quasi tutti quelli che su un elicottero non sono mai saliti, ignari che mettersi al volante della propria auto è molto più rischioso. Qualche volta gli verrebbe da rispondere – “Sì, certo ogni tanto succede che uno cada giù” – così, solo per il gusto di vedere la faccia delle persone.
E invece, ringraziando Dio o chi per lui, in oltre ventini anni di storia dell’elisoccorso in provincia di Belluno,gli elicotteri sono sempre decollati e atterrati regolarmente, portando a compimento un sacco di missioni. Gli verrebbe da aggiungere con successo, ma non è poi così sicuro che riportare a terra un alpinista sfracellato o uno scialpinista morto soffocato o assiderato sotto una slavina si possa definire, in realtà, un successo.
Con Diego ai comandi poi, si sente in una botte di ferro. È un pilota estremamente meticoloso, preciso, attento, come d’altronde tutti quelli che si dilettano a portare Falco in giro per i monti. Diego ha poi un’altra dote: un’infinita calma che riesce a mantenere anche nelle situazioni più difficili, calma che non contrasta affatto con la rapidità d’azione necessaria talvolta nell’elisoccorso. Lo osserva di sottecchi da sopra il sedile mentre esegue le procedure di routine prima di condurre nuovamente l’elicottero in quota e dirigersi dove la centrale del 118 gli ha ordinato.
Non appena elitrasportata in ospedale la paziente, dovranno recarsi immediatamente a Rio Gere, sotto il Passo Tre Croci, dove pare che dal Monte Cristallo si sia staccata una frana a causa delle abbondanti precipitazioni dell’ultima ora. Considerata la frequentazione importante della zona da un punto di vista turistico ed escursionistico, devono controllare che non ci siano persone coinvolte, poiché pare che l’evento franoso abbia in parte interessato la rete sentieristica.
Sull’area stanno convergendo anche alcune squadre via terra della locale Stazione del Soccorso Alpino
“Speriamo sia solo un falso allarme, non credo che col tempaccio di poco fa ci fosse poi una grande folla in giro per i sentieri!”
Falco ha ripreso velocemente quota ed è già alto nel cielo. Bello vedere il mondo da lassù: i rifugi aggrappati alle crode; le piste, ora verdi nastri erbosi che scendono dai monti; le strade linee sinuose che cavalcano i passi; il cielo plumbeo che lascia filtrare qualche timido raggio di sole dopo la bomba d’acqua… Peccato che la donna sdraiata sulla barella si perda tutto questo spettacolo. Loris la vede muovere leggermente le labbra, forse sta pregando. L’infermiere scuote la testa e torna a guardare fuori dal finestrino.
Ci vogliono pochi minuti per arrivare al Codivilla. Un ospedale dalla storia gloriosa che gode ancora di una certa fama nell’ambiente medico per gli ottimi risultati che vi si conseguono nella cura delle malattie e dei traumi alle ossa. A chi lo vede per la prima volta può sembrare quasi un albergo, con le terrazze rivolte verso il sole e l’imponente mole del Gruppo delle Tofane e del Pomagagnon a fare da mirabile sfondo naturale. La piazzola per l’elicottero è situata appena sopra l’edificio, verso l’altra struttura ospedaliera, il Putti, a pochi passi dalla sede del Soccorso Alpino.
Diego atterra con la stessa naturalezza con cui una persona qualunque parcheggia l’auto nel vialetto di casa, non spegne nemmeno il motore per guadagnare secondi preziosi ed effettuare subito l’altra missione. Francesco e Loris aiutano gli infermieri a trasferire la paziente sull’ambulanza per il breve tragitto verso l’ospedale. Cercano di fare il più in fretta possibile: se davvero c’è qualcuno sepolto sotto la frana o in seria difficoltà a causa di essa, non c’è un attimo da perdere!
La donna è visibilmente sollevata per il fatto di essere di nuovo a terra e li ringrazia calorosamente: “Siete degli angeli!” Poi, con tono più intenso aggiunge: “Che il Signore abbia cura di voi!”
“Via! Via!” Francesco balza dentro e chiude il portellone mentre fa segno a Diego che può di nuovo levarsi in volo.
Le ruote si sollevano dal cemento della piazzola, il muso punta verso il Cristallo che, appena sopra le loro teste, appare ancora coronato da nuvoloni grigi e li osserva avvicinarsi.
Anche le squadre del Soccorso Alpino di Cortina si stanno velocemente portando in località Rio Gere. La loro presenza è indispensabile in supporto all’attività dell’elicottero e per effettuare eventuali perlustrazioni via terra.
L’orologio sul display di Falco segna le 14:32.
13
Stasera. Glielo dirà stasera, quando rientrerà dal lavoro. Gli butterà le braccia al collo, lo riempirà di baci e gli darà la bella notizia. Anzi, forse farà finta di dormire sul divano e aspetterà che lui le si avvicini per avvertirla del suo arrivo con un bacio sulla fronte.
Ha tutto il pomeriggio per pensarci, vuole che sia una sorpresa memorabile! Magari più tardi potrebbe uscire e comperare un ciuccio o un paio di scarpine da neonato e nasconderle sotto il cuscino, dove lui le troverà, quando cercherà la maglietta con cui dorme la notte… Sì, l’idea le piace, se non si mette di nuovo a piovere ne approfitterà per fare una bella passeggiata!
Lei lo sa da qualche giorno, da quando quelle due lineette azzurre sono apparse sullo stick del test di gravidanza, lasciandola prima quasi senza fiato, poi con il cuore colmo di felicità.
Ha voluto attendere le analisi e la visita del medico per essere sicura e non commettere azioni precipitose prima di dirlo a suo marito. Subito dopo l’auspicata conferma, le era venuta quell’idea di tormentarlo un po’, di fargliela pagare per tutti gli scherzi che era costretta a subire da parte di quel burlone. Così aveva trovato un pretesto per poter mettere il muso e aveva concesso a Teo di dormire nel lettone, anche se a discapito della qualità del suo sonno e delle lenzuola.
Già s’immagina la sua faccia: “Incinta… un miracolo!”
Eppure, non ci sono dubbi, il ginecologo l’ha confermato, dentro di lei c’è un cuoricino che pulsa, c’è una nuova vita in arrivo! Michele farà letteralmente i salti di gioia, specie dopo lo scherzetto dell’adozione… quando gli ha fatto la finta scenata, qualche giorno addietro, a stento è riuscita a trattenersi dallo scoppiargli a ridere in faccia.
A dire il vero, c’era stato un momento in cui si era davvero convinta che quella fosse l’unica strada praticabile e si era informata su come intraprendere l’iter. Oramai non sperava più nemmeno lei di diventare madre, almeno non dopo quell’ultima visita in un centro specializzato, dove le avevano fatto capire a chiare lettere che l’evento avrebbe rasentato l’impossibile e che anche un ipotetico tentativo di fecondazione assistita avrebbe dato con ogni probabilità esito negativo.
L’idea di non poter un giorno sentirsi chiamare mamma le metteva addosso una grande angoscia e una tristezza infinita. Il famoso orologio biologico, nel suo caso, era ormai diventato una vecchia pendola, che giorno dopo giorno non mancava di far sentire i suoi rintocchi, a scandire un tempo che stava per finire. Poi quel ritardo di tre giorni, il test di gravidanza acquistato nella farmacia di un altro paese, quelle due piccole linee che mai avrebbe creduto di vedere…
Si sdraia sul divano stringendosi al petto un cuscino, come faceva da piccola con l’orsetto di pelouche, come farà tra qualche mese con il suo bambino. O con la sua bambina, su questo non ha particolari preferenze, l’importante è che sia sano e magari con lo stesso colore di capelli del padre!
Per un momento aveva anche sperato in una coppia di gemelli, da parte sua la familiarità c’era, invece l’ecografia aveva confermato che il cuoricino che batteva era solo uno! Andava bene lo stesso, sempre meglio non abusare della buona stella!
D’improvviso un fulmine squarcia il cielo grigio, seguito subito dopo da un tuono fragoroso. Teo, che dorme tranquillo nel suo angolo, scatta sulle quattro zampe e si rifugia di corsa sul divano con lei, nascondendo la testa sotto le sue gambe.
“Sei un fifone di prima categoria! Approfittane bello mio, perché tra qualche mese verrai sfrattato in giardino, altro che dormire sul letto!”
Un mugolio contrariato da parte dell’animale le aveva strappato un sorriso. Certe volte sembrava davvero che quel cane comprendesse quello che gli si diceva!
Un altro tuono, violento come il precedente, è immediatamente seguito dal primo scroscio di pioggia. Elena si alza e si affretta a chiudere le imposte prima che le grosse gocce d’acqua vanifichino tutto il lavoro fatto il giorno prima per ridare trasparenza ai vetri, almeno alla parte fuori dalla portata dell’umido naso di Teo.
Pensa a Michele. Chissà che non sia in volo con questo tempaccio! Le aveva mandato un messaggio poco prima dicendole che stavano effettuando un intervento sul Passo Giau. A quest’ora, probabilmente, era invece già a Pieve di Cadore a gustarsi qualcuna delle torte che nella piccola sede del Suem non mancano mai.
Dalla finestra della cucina la donna osserva il muro d’acqua nascondere alla vista il paesaggio circostante. Le auto in transito sulla strada sollevano ondate che si riversano poi sui malcapitati cespugli di rose piantati appena l’anno prima a sostituire la vecchia siepe spelacchiata.
Poco male, piovesse pure nel mondo reale, da stasera, tra quelle quattro mura, il sole sarebbe brillato più sfolgorante che mai!
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“Ma porco giuda! Guarda te se proprio oggi mi doveva capitare! Che maledetta sfiga!”
“Su Filippo, non prendertela! Ci saranno un sacco di altre occasioni. Poi, vista la giornata, meglio così… con questo tempaccio non credo si siano mossi.”
La moglie gli sistema premurosamente il cuscino dietro la testa. Lui la ringrazia con un sorriso, poi torna a guardare il soffitto con aria corrucciata. Che palle! Un turno di elicottero ogni morte di Papa e quando finalmente tocca a lui… schiena bloccata! L’unica, magra, consolazione è che con il diluvio universale che sta scendendo, molto probabilmente, gli altri saranno tutti a giocare a carte e mangiare torte in saletta. Avrebbe potuto mandare un messaggio a Stelvio per chiedergli come se la passava.
Ieri sera, quando dopo l’intero pomeriggio trascorso a ingurgitare antidolorifici, era stato evidente che gli risultava difficoltoso perfino stare seduto, non aveva avuto dubbi su chi chiamare per farsi sostituire.
“Ehi vecchio! Ti va di fare “l’aquila” al posto mio domani?”
“Aquila” è l’appellativo o, meglio, l’identificativo tramite il quale il tecnico di elisoccorso, agganciato al verricello o al gancio baricentrico, oppure semplicemente fermo su qualche cengia in attesa dell’elicottero, dialoga via radio con il pilota.
Inutile dire che l’altro aveva accettato immediatamente, complice il fatto che gli era andata a monte un’uscita proprio a causa delle condizioni meteo. Far salire quel ragazzone sull’elicottero era come regalare a un bambino un giocattolo nuovo. Non aveva mai fatto mistero del fatto che spesso tralasciava il lavoro a favore del Soccorso Alpino, ma Stelvio aveva una filosofia di vita tutta sua, una specie di “vivi e lascia vivere” che lo faceva comunque essere benvoluto da tutti.
Si erano conosciuti al corso per tecnici di elisoccorso. Nonostante la marcata diversità di carattere avevano immediatamente legato, sino a diventare ottimi amici. D’altronde era impossibile non stringere un qualche tipo di legame con un tipo come Stelvio: un carattere solare che trasmette allegria sin dal primo approccio, una straordinaria dose di empatia che lo rende simpatico a chiunque.
La loro frequentazione era stata incentivata dalla comune passione per la montagna: con lui aveva realizzato il suo personale sogno di salire “Il pesce”, la via per antonomasia sulla parete sud della Marmolada, ed era stato sempre Stelvio a iniziarlo alle gioie del canyoning nelle numerose, selvagge e magnifiche forre del bellunese.
Negli ultimi tempi non si erano trovati tanto spesso, causa impegni familiari. Suoi ovviamente, perché Stelvio è uno spirito libero e indipendente e, seppure millanti da anni una presunta fidanzata, in realtà, nelle rare occasioni in cui lo si era colto in dolce compagnia, nessuno l’aveva mai visto più di due volte con la stessa ragazza a fianco.
Per fortuna c’era il Soccorso Alpino a creare occasioni di incontro tramite le esercitazioni o durante gli interventi che, per quanto tragici o complicati fossero, Stelvio riusciva sempre a sdrammatizzare.
Ieri sera, nel corso della chiamata, aveva avuto la pessima idea di dirgli che era bloccato col mal di schiena, dando il via a tutta una serie di battute a sfondo sessuale che lo avevano fatto ridere fino alle lacrime.
“In cambio del favore ti dipingo il cesso gratis!” – lo aveva salutato l’amico. “Che pirla!” – l’immediata risposta.
“Adesso gli rompo un po’ le scatole, tanto si starà annoiando in base” – pensa allungando la mano verso il tavolino e ignorando una fitta lancinante alla parte bassa della schiena. Il display segna quasi le tre del pomeriggio. Apre la cartella dei messaggi e seleziona il nome dell’amico: “Allora? Operativi o fermi ai box?”
Invio. Attende qualche attimo senza ottenere risposta.
“Francesca, hai voglia di portarmi un caffè per favore?”
La moglie fa capolino dalla cucina.
“Hai scritto a Stelvio?”
“Sì, ma non ha ancora risposto… probabilmente sono fuori in missione o immersi in qualche briefing.”
“Sì, in un briefing con uno strudel o una sacher in mano! Fattene una ragione, Falco non si è mosso dal piazzale con questa pioggia! Dai, metto su la moka.”
Fuori le nubi scure si erano alzate e non pioveva più.
“L’antidolorifico col caffè non va tanto bene, vero?”
Gli fa un male del diavolo. Sicuramente non sarebbe stato in grado di reggersi in piedi l’indomani per andare alla partita di pallavolo della figlia. Sbuffando arpiona il telecomando e si appresta a trascorrere il resto del pomeriggio facendo zapping.
15
Quanti interventi ha già effettuato nella sua carriera? Ormai ha perso il conto. All’inizio se li segnava su un’agendina: luogo, data, tipo di operazione, soggetto coinvolto ed altri dati di sintesi. La sua scrittura minuta aveva riempito pagine e pagine di nomi e annotazioni. Poi, all’improvviso, aveva smesso: la sua memoria non aveva bisogno di quei freddi dati per richiamare alla mente ogni singola missione con estrema dovizia di particolari.
Di queste montagne, già percorse a piedi in lungo e in largo, conosceva ogni spigolo, ogni diedro e quasi ogni guglia anche dall’alto. Non è un lavoro facile, ma è un lavoro bellissimo, il lavoro che ha sempre sognato di fare, il lavoro che sa fare meglio. Volare tra le cime più belle del mondo e salvare vite, aiutare persone in difficoltà. Cosa può esserci di più entusiasmante? Certo, c’era anche il rovescio della medaglia. Spesso, le persone che riportava a valle non potevano più raccontare la loro esperienza, non potevano più riabbracciare i loro cari.
Eppure, incredibilmente, anche in questi casi per lui e per il suo equipaggio c’erano solo elogi e ringraziamenti, perché chi resta è consapevole dei rischi e della fatica compiuti per dar loro modo di avere almeno una tomba su cui piangere. È il suo lavoro, gli piace e gli piace svolgerlo al meglio, senza risparmiarsi.
Aveva conseguito il brevetto di pilota di elicotteri nell’Esercito. Da militare aveva imparato i trucchi per condurre queste strane macchine volanti, facendosi le ossa, acquisendo esperienza. Ma ad un certo punto la nostalgia per la sua amata montagna si era fatta sentire con prepotenza e così, quando si era presentata l’occasione per tornare a casa, lui l’aveva presa letteralmente al volo. Da quasi dieci anni ormai, lavorava per la Fly Dolomiti, su elicotteri attrezzati per svolgere l’elisoccorso in montagna. Trascurando qualche breve trasferta in altre basi in giro per l’Italia, la sede di lavoro era a poche decine di chilometri da casa, in mezzo a quei picchi e a quelle valli che tanto amava.
Pensa al tempo trascorso mentre rocce e abeti sfilano veloci sotto di lui. Dal Codivilla a Rio Gere il volo è breve, una trentina di secondi o poco più. Si porta subito sopra la frana, una prima ricognizione veloce, per individuare eventuali persone in pericolo. Diego scruta attento il terreno, con la coda dell’occhio vede Michele fare la stessa cosa. Ogni tanto alza lo sguardo, non ha avuto il tempo di studiare sulla cartina il percorso, quindi deve prestare maggiore attenzione, anche se è comunque una zona che conosce molto bene: sia in estate sia in inverno dover compiere qualche intervento dalle parti del Cristallo è pressoché scontato.
La lingua di fango che scende dalla montagna fa impressione, ha trascinato con sé sassi, alberi, ghiaia e lembi di terra. È passata con violenza sotto la seggiovia, scavalcando la strada del Passo Tre Croci con un muro d’acqua di oltre tre metri d’altezza e lasciando dietro di sé un’ampia scia color caffelatte. Francesco scatta alcune fotografie particolareggiate, ogni tanto cede la fotocamera a Loris che, seduto di fronte, può riprendere da una prospettiva diversa.
“E togliti dalle palle! C’è sempre il tuo profilo greco in ogni scatto!” – grida il medico a Stelvio che gli sta seduto a fianco, vicino al portellone spalancato, intento a riprendere con un’altra fotocamera, quella in dotazione al Soccorso Alpino, e che gli risponde facendo una linguaccia. Ma sono gli occhi il miglior mezzo di controllo, occhi che scandagliano ogni porzione di terreno e di ghiaione sul fronte franoso, metro quadro dopo metro quadro, settore dopo settore.
Dopo una decina di minuti, Falco atterra sul grande piazzale di Rio Gere situato poco distante l’omonimo ristorante. Non appena il portellone si apre alcune persone si avvicinano con fare concitato.
“Capitate a proposito! C’è un uomo laggiù che non sta molto bene, potete venire a controllare per favore?”
Francesco non si fa pregare e assieme a Loris si affretta verso il camper in cui si trova il malcapitato. “Tutto quel fango, quella colonna d’acqua che sembrava sommergere ogni cosa… veniva verso di noi… mi sono spaventato!” L’uomo ha il respiro affannoso e i battiti accelerati.
“Secondo me il signore non ha particolari problemi!” – comunica il medico per telefono qualche minuto dopo agli operatori del Suem e al tecnico di centrale operativa del Soccorso Alpino – “Un piccolo attacco di panico, ma nulla di davvero preoccupante. Lasciamo a terra Loris che così lo tiene monitorato ancora un po’ per estrema sicurezza, mentre noi facciamo un’altra ricognizione leggermente più ampia alla base della parete, per fugare ogni dubbio sulla presenza di persone in difficoltà e poi torniamo alla base!”
“Ritenete veramente necessario un altro controllo? “– chiede l’uomo dall’altra parte. Francesco insiste, affermando che è meglio essere certi poiché in zona sino a poco prima ed in base alle informazioni raccolte si trovavano molti escursionisti e la tipologia della ricerca andava, quindi, condotta in modo puntuale su altre porzioni di terreno che anche lo stesso tecnico di centrale aveva considerato come zone sensibili. Questione di pochi minuti. Semplice, ma doveroso scrupolo.
Mentre il medico è al telefono per comunicare gli ultimi dettagli, tre bambini si avvicinano timorosi. Non parlano italiano, ma fanno capire con gesti eloquenti che vorrebbero farsi fare dal papà, che intanto agita le braccia poco distante, una foto davanti all’elicottero. Michele non si fa scappare l’occasione di fare qualcuna delle sue smorfie per far ridere i tre bimbi.
“Where are you from?” – chiede al bambino più grande prima che questo si allontani. “We are from the USA!” L’uomo spalanca gli occhi più del necessario e gli mostra i due pollici alzati, poi si rimette il casco e prima di salire da una manata sul muso di Falco. “Ehi, vecchio, diventerai famoso anche in America!”. Diego scuote la testa mentre accende i motori.
Loris li osserva decollare, risponde agitando mollemente la mano al saluto degli altri. Stare sopra Falco è fantastico, ma anche il solo vederne le evoluzioni da terra è una cosa terribilmente affascinante! Sono le 14:58.
L’elicottero scompare dietro il crinale. L’infermiere nel frattempo rassicura il suo paziente, affacciandosi alla porta del camper: “Stia tranquillo signore, è un problema transitorio, nulla di grave, vedrà che tra un po’ starà meglio”.
Poi si guarda in giro. Dal piazzale parte la seggiovia che porta alle piste del Faloria, di là, oltre la strada, c’è la stazione a valle dell’impianto che arriva invece al Rifugio Son Forca posto sotto il Cristallo, da dove partono i famosi bidoncini rossi e gialli che salgono al Rifugio Lorenzi. La frana si è portata via un pezzo di pista da sci, ma non vi è dubbio che prima della stagione invernale tutto sarà rimesso a posto e di questa giornata non si ricorderà più nessuno!
Tra le persone che si aggirano nei paraggi ci sono alcuni uomini del Soccorso Alpino di Cortina arrivati a controllare la situazione dopo essere stati allertati dalla centrale operativa del Suem 118. Ne conosce un paio, gli stessi con i quali poco prima ha scambiato qualche parola sull’evento metereologico. C’è pure un ragazzo che lavora come tecnico aeronautico per una ditta di lavoro aereo di Cortina che, in fase di atterraggio, aveva dato una mano per facilitare le varie manovre facendo spostare delle persone in posizione di sicurezza.
Chissà che gli altri si sbrighino con la ricognizione, nell’armadietto in sede c’è una bella crostata con marmellata di albicocche che li aspetta, in compagnia di qualche succo e di una bottiglia di prosecco, ma di quello buono davvero, non come quelle porcherie che portano gli altri di solito!
Sull’elicottero la perlustrazione della zona prosegue di pari passo con l’osservazione del terreno, si scattano ancora delle foto ad alcune auto semi sommerse dal fango, a degli alberi caduti e, di nuovo, al fiume di ghiaia e melma.
“Andiamo un po’ più su rispetto a dove siamo arrivati col volo precedente, più sotto, vicino alle prime pareti rocciose dove si diramano dei sentieri, così siamo tranquilli e ce ne torniamo tutti in base, ok?” Diego porta l’elicottero lungo il canalone da cui è scesa la frana. Ecco, lì c’è quel grosso larice caduto, quello intravisto dal basso durante la prima ricognizione. È un vecchio larice rinsecchito, di fianco c’è un piccolo pino, verde e sano, destinato comunque a fare la stessa fine perché posizionato sul margine della massa in movimento.
Gli occhi del tecnico di elisoccorso e del medico scrutano con attenzione tutto attorno, analizzano il terreno e il reticolo di sentieri. Gente in pericolo qui non ce n’è, per fortuna si è trattato di un falso allarme! Si può tornare indietro, imbarcare Loris e volare in base.
“Facciamo dietro front, gente! Riportiamo Falco nel suo nido!” Con queste parole, Diego pone fine alla ricerca.
Trovandosi con una velocità di traslazione dell’elicottero ancora bassa, dà potenza ai motori.
16
Non si vedono. Si confondono tra gli alberi e la roccia anche se si è un pilota esperto, come Diego. Non si vedono anche se forse si intuisce che ci potrebbero essere, anche se la visibilità non è poi così scarsa, davvero non si riescono a scorgere.
Non li ha visti nessuno, nemmeno durante la prima ricognizione, quando c’erano due occhi in più che scrutavano, attenti, in giro. Altrimenti qualcuno lo avrebbe detto. Non c’è luce che li metta in risalto, il cielo è grigio, anche se non piove più. La roccia anche. Non ci sono segnali che ne indichino la presenza.
I cavi maledetti se ne stanno lì, sospesi sopra il canalone, sorretti da piloni seminascosti tra gli alberi, colorati in modo da non deturpare il paesaggio, questo paesaggio che tra poco diventerà patrimonio dell’Unesco. E anche la seggiovia che questi cavi fanno funzionare sarà patrimonio dell’Unesco e pure la pista da sci che serpeggia tra le rocce e il ghiaione lo diventerà.
Falco quei cavi non li vede, non sa di averli esattamente sopra la testa. Sale verso il cielo, per allontanarsi da quel grigio canalone, per volare verso casa.
Ed è un attimo. Un rumore diverso da sempre, sordo e stridulo al contempo, uno scossone improvviso di estrema violenza, uno strappo ai corpi e alle lamiere, spie e led che si accendono ovunque nell’inutile tentativo di comunicare qualcosa. Il rotore principale, la vita stessa dell’elicottero, viene strappato d’improvviso con un’inaudita forza. I cavi, spezzati, due sibilanti serpenti d’acciaio, impazziti a causa dell’urto, squarciano le pale, le fanno a pezzi, le trascinano lontano, quasi fossero esplose, mentre Falco, senza le sue ali, precipita violentemente per cinquanta metri…
Tre secondi.
Uno.
(Respiro)
Due.
(Respiro)
Tre.
(Respiro)
Tanto dura l’ultimo volo. Poi lo schianto. Terribile.
Definitivo.
Ultimo.
Tre secondi sono un niente, ma se intuisci che stai per morire, anche tre secondi sono tutto. Sono l’ultimo gesto, l’ultimo grido, l’ultimo battito di ciglia. L’ultimo pensiero a chi vuoi davvero bene. A chi ami. Forse anche a chi odi.
Chissà se gli uomini di Falco si sono detti qualcosa.
Chissà se lo sguardo è corso alle amate montagne.
Chissà dove è volato il loro pensiero. Chissà se le grida rauche in gola hanno espresso un’ultima cosa.
Gli occhi di Diego e Michele si saranno incontrati, stupiti e increduli? Stelvio e Francesco, uno di fronte all’altro, avranno visto riflessa la propria paura nel volto deformato dal terrore dell’altro? Se davvero, nell’imminenza della morte, la vita scorre davanti, quanti e quali sono stati gli ultimi fotogrammi di queste quattro intense, brevi esistenze?
Il greto del torrente è un letto troppo duro, un letto grigio composto di sassi e fanghiglia dove quel bianco, quel rosso, quel blu non ci dovrebbero stare, perché quelli sono colori di vita, mentre in questo silenzio assurdo, rotto solo dal gorgoglio dell’acqua melmosa, adesso regna unicamente la morte.
17
Proprio un gran bel diluvio! Nel giro di un paio d’ore è caduta talmente tanta acqua che dai fianchi della montagna sembravano scendere fiumi in piena, alla faccia del temporale estivo! Per fortuna ora ha smesso, pare che le nuvole si stiano diradando e qua e là un po’ di azzurro fa capolino. Chiazze di cielo che si allargano sempre più col passare dei minuti.
Meglio approfittarne, pensa Aldo, per tornare verso valle. Certo già stamattina il tempo non era dei migliori, ma chi avrebbe mai immaginato una cosa simile? Saluta il gestore del rifugio dove ha trovato provvidenziale riparo dopo i primi tuoni e dove si è lasciato consolare da una consistente porzione di strudel accompagnato da un’ottima birra media. Chiude la zip della giacca in Goretex, apprezzatissimo regalo di compleanno della moglie, prima di uscire nell’aria frizzante dei 2000 metri.
Sono solo le tre del pomeriggio, se per caso rasserena rallenterà il passo o farà una deviazione per godersi ancora un poco queste meraviglie, giacché domani sarà l’ultimo giorno di ferie e poi si torna al lavoro. Dipendesse da lui, rimarrebbe tra queste montagne a vita: panorami stupendi, aria pura, pace, silenzio…
Silenzio che però adesso è turbato da un elicottero che continua a gironzolare nei paraggi. Prima l’aveva sentito ronzare per alcuni minuti, poi doveva essere atterrato non lontano da lì e per un po’ la quiete era tornata a prendere possesso della zona, disturbata solo dallo scrosciare impetuoso di un ruscello ingrossato dalla pioggia. Adesso era di nuovo in volo! Magari sarà il giocattolo di qualche Vip venuto a fare passerella a Cortina, di quelli che al rifugio pensano sia meglio arrivarci comodamente seduti, invece che stanchi, sudati e con le vesciche ai piedi!
A proposito di vesciche: gli scarponi nuovi sono una meraviglia, leggeri, comodi e non fanno entrare un goccio d’acqua. Li ha pagati un occhio della testa, ma deve ammettere che sono stati soldi ben spesi. Nonostante il terreno bagnato, Aldo cammina spedito, l’andatura è quella di chi è abituato a percorrere sentieri e mulattiere, di chi frequenta la montagna da tanti anni con la propria inseparabile fotocamera sempre pronta a tracolla.
Di colpo si ferma. Che strano botto, pareva quasi… E l’elicottero? Non lo sente più. Che sia atterrato di nuovo? Ma no, impossibile, era appena ripartito e ne sentiva il rumore in modo nitido, quasi si trovasse là vicino! Vuoi vedere che…
Sa come ci si muove in montagna, i comportamenti da tenere, le cose da fare. Non è uno sprovveduto gitante della domenica, ha ben presente che, quando si ritiene che qualcuno sia in pericolo, l’unica cosa da fare è comporre il 118. Quindi, estrae dalla tasca il telefonino e digita senza dover pensarci più di tanto il numero. La risposta è immediata.
“Pronto? 118.” Sullo schermo del computer nella centrale di Pieve di Cadore compare il numero di un cellulare. “Buongiorno, mi chiamo Aldo, stavo facendo un’escursione sul Faloria sopra Cortina. C’era un elicottero che girava qua vicino, lo sentivo distintamente. Poi ad un certo punto c’è stato un rumore sordo, durato pochi istanti e…”
“E…?” “E l’elicottero non l’ho sentito più! “
L’operatrice all’altro capo ha un brivido profondo, una scossa che si diparte dalla nuca ed arriva rapida sino alla fine della schiena. La fa raddrizzare all’improvviso sulla sedia. Riesce però a mantenere la professionalità che le compete.
“Può darmi indicazioni più precise per favore? Qualche dettaglio, tipo dove si trova di preciso lei e dove vedeva l’elicottero volare?”
“Non saprei, non lo ho visto, ma ho solo sentito il rumore…”
“Quindi non sa dirmi in che direzione volava o in che zona si trovava precisamente”
“No di preciso no, mi dispiace. Posso solo dirle che è la zona sopra Rio Gere, verso le pendici del Cristallo. “
Quando riattacca il telefono, con la voce che le trema e quel brivido che ancora le solletica la muscolatura, la donna volge lo sguardo alla radio e al pulsante per la trasmissione che schiaccia immediatamente per poter parlare.
“Falco, Falco da Papa Charlie!”
Attende qualche secondo. Poi ancora uno. Due. Tre.
“Falco, Falco da Papa Charlie!”
Un secondo. Due, tre… un altro ancora…
18
La sala d’aspetto del Pronto Soccorso di Belluno è stranamente poco affollata per essere un sabato di agosto. Non c’è molto lavoro da sbrigare: nessuno allo sportello, tre pazienti in codice verde in attesa di essere chiamati per la visita. Noemi e il suo collega, Alessandro, approfittano dell’inattesa calma per fare quattro chiacchiere, nascosti dietro la sottile parete che separa il banco dell’accettazione dalle piccole stanze di servizio, dove solitamente sostano gli autisti delle ambulanze. Da una di queste salette arrivano gli scarni colloqui tra l’elicottero del Suem e la centrale operativa di Pieve di Cadore.
Il loro turno è praticamente appena iniziato, ma già Alessandro lancia impazienti sguardi all’orologio sulla parete.
“Solo un’ora che siamo qui? Uff! In questo periodo proprio non mi passa… Per fortuna ancora due settimane e poi, finalmente, le meritate ferie!”.
Noemi, appollaiata su una sedia girevole, si dondola a destra e a sinistra sfruttando un piede come leva.
“Beato te, io ho già fatto la prima di agosto e adesso mi tocca aspettare ottobre. Mi pare talmente lunga… Vai da qualche parte?”
L’altro annuisce.
“Dove di bello?”
“In Sicilia, da parenti della mia ragazza. Solo quattro giorni però, gli altri giorni li occuperò a sistemare e rassettare casa, là di lavoro ce n’è per mesi, se non forse per qualche anno…”
“Wow! Matrimonio in vista?”
“Convivenza, per ora! Poi si vedrà…”
“Beh, dai è lo stesso un bel passo! Pensa che…” Noemi si zittisce vedendo la mano sollevata del collega.
“Cosa c’è?”
“Non ha risposto…” – Alessandro aggrotta la fronte.
“Chi non ha risposto?” – chiede Noemi facendo fare un giro completo alla sedia.
“Falco… non ha risposto alla chiamata…”
Proprio in quel momento un altro appello riecheggia nell’ambiente chiuso: “Falco, Falco da Papa Charlie!”
Silenzio. Solo il rumore delle scariche elettrostatiche.
“Perché non risponde? Lo fa subito, di solito…” – Alessandro si volta e fissa Noemi con fare interrogativo. Lei però non sembra preoccuparsi più di tanto.
“Cosa vuoi che ne sappia perché non risponde, sarà caduto…” – butta là con un mezzo sorriso.
Alessandro, invece, non sorride per nulla. La fissa accigliato, scuotendo la testa.
“Che battuta del cazzo! Secondo me qualcosa è successo. Falco risponde quasi sempre alla prima chiamata! Questa è già la terza e sono passati già un paio di minuti!”
La ragazza adesso sembra rendersi conto che in effetti c’è qualcosa di strano, vorrebbe mordersi la lingua per quanto detto poco prima.
“Ma tu non hai tuo fratello di turno con l’eli? Prova a chiamarlo, no?”
Noemi prende il cellulare e cerca il numero in rubrica. Le dita le tremano un poco, ma l’agitazione che Alessandro le ha messo addosso si placa subito non appena una voce conosciuta risponde all’altro capo.
“Loris! Ciao… Dove siete? Perché l’elicottero non risponde?”
Dalla radio continuano a giungere i ripetuti tentativi di contatto con l’elicottero.
“Io sono a terra a Rio Gere, mi hanno lasciato qui ad assistere un uomo con una lieve tachicardia, gli altri sono andati a controllare una frana… Però… qui abbiamo sentito tutti un rumore strano… adesso con un tizio che era nel Soccorso Alpino e un altro ragazzo, Riccardo, andiamo a vedere con la jeep!”
Percepisce una certa inquietudine nella voce, suo fratello è preoccupato, qualcosa è successo di sicuro. Lei cerca di mantenere un tono indifferente.
“Va bene, appena sai qualcosa di più preciso chiama!”
“Okay, appena arrivo lì ti avviso! Ciao!”
Chiude la conversazione sollevata dal fatto che il fratello stia bene, tuttavia l’ansia non l’abbandona mentre riferisce all’amico quanto appena saputo.
“Lui sta bene, però qualcosa deve essere capitato… Ha detto che appena ha novità mi fa sapere!”
Intanto le chiamate si susseguono e il silenzio che resta nell’aria come risposta comincia a fare paura. Sempre più preoccupata, Noemi telefona alla centrale operativa di Pieve di Cadore. Conosce chi le risponde all’altro capo e che la rassicura subito sullo stato del fratello. Lo fa con un tono di voce che però tradisce l’angoscia.
“Si lo so che Loris sta bene, ci ho appena parlato, ma sai cosa è successo?”
“No non lo so, ha chiamato un uomo dicendo che sentiva il rumore dell’elicottero e ad un certo punto non l’ha sentito più… Siamo in attesa di notizie anche qui. Speriamo… speriamo bene… ciao.”
Dopo una decina di minuti, visto che da Loris non giunge alcuna notizia, Noemi ricompone il numero. Lascia squillare il telefono svariate volte senza ottenere risposta. Ritenta subito, col medesimo risultato. Al quarto tentativo, quello che le risponde non è suo fratello. È un’altra persona.
“Loris! Dove cazzo sei?”
“Sono qui…”. La voce è piatta, senza inflessioni.
“Qui dove…”
“Qui dove c’è Falco …”
“Ma sei da solo? “
“No, sono con Riccardo e gli altri”
“Chi gli altri!”
“I ragazzi…”
Esasperata, Noemi non si accorge di aver alzato di un’ottava il tono di voce.
“Ma l’elicottero dov’è?”
“Qui…”
“Ho capito qui, ma cosa è successo, perché non risponde!”
Silenzio
“Loris! Cosa è successo a Falco”?”
“… È caduto!”
“Come caduto… Dio Santo! Ma l’equipaggio dov’è?”
“Qui…”
“Ma ce li hai lì vicino? Stanno bene?”
Di nuovo silenzio. Poi parole che le gelano il sangue
“La testa… la testa di Francesco è tutta schiacciata e Stelvio…”
Poi una specie di ululato e il silenzio della chiamata interrotta.
19
Il responsabile del Soccorso Alpino, chiamato anche Delegato, non è una persona a cui solitamente piace stare con le mani in mano. La carica che ricopre fa si che debba spesso sacrificare affetti e hobbies portandolo a impegnarsi anche quando la sua presenza non è magari strettamente indispensabile. Una persona a cui piace aver tutto sotto controllo, così oggi, anche se è sabato, se ne sta nel magazzino della sede di Belluno con Mauro, uno dei volontari, a riordinare un poco, come da accordi presi il giorno prima.
Sapere dove trovare le cose che servono quando servono fa risparmiare un sacco di tempo e, nella maggior parte delle situazioni con cui ha quotidianamente a che fare, il tempo fa talvolta una sostanziale differenza.
Il Delegato si chiama Fulvio e, quando serve, è un tipo di poche parole, al contrario del suo compagno di lavoro odierno che, invece, non la smette di chiacchierare dei temi più disparati. Sposta scatoloni, imbraghi e corde in silenzio, pensa alla relazione da battere al pc per lunedì, alla pioggia che cade violenta e che con tutta probabilità manderà a monte la grigliata in programma per domani. Pensa a tutto questo ascoltando solo a tratti Mauro che, invece, parla di un intervento che è stato effettuato qualche giorno prima sulla Tofana di Rozes a favore di un paio di ragazzi tedeschi che avevano sbagliato addirittura la via di salita, rimanendo ben presto incrodati sotto un tetto.
Ogni tanto annuisce in modo distratto, perso nella revisione mentale dei vari rapporti istituzionali che devono essere assolutamente ripresi a fine agosto.
Appena entrati, Fulvio ha acceso la radio sintonizzata sulle frequenze del Suem in modo da poter ascoltare in tempo reale eventuali interventi. Agosto è il mese nel quale gli incidenti sono più frequenti e con questa pioggia torrenziale, il rischio che ce ne possano essere diventa quasi una certezza. I temporali erano stati certamente previsti, ma non con questa intensità. Condizione pericolosa per quanti si sono avventurati lo stesso tra i monti.
Le chiacchiere di Mauro fanno da colonna sonora all’uggioso pomeriggio tanto che nessuno fa caso alla prima chiamata del 118 che, come successo un’infinità di volte nel corso degli anni del servizio di elisoccorso, chiama il proprio elicottero “Falco da Papa Charlie…”
A breve, ne segue una seconda. Fulvio drizza le antenne, si blocca in ascolto. Forse una zona non coperta, succede spesso. Terza chiamata: “Falco…”.
L’intonazione della voce questa volta è assai diversa dalle due precedenti: più tremolante e frettolosa, ansiosa di una risposta.
Mauro continua a parlare, non pare far caso al tono sempre più allarmato delle richieste. “Scusa, sta zitto un attimo per cortesia!” – sbotta ad un certo punto Fulvio, ricevendo in cambio uno sguardo contrariato. “L’elicottero non risponde!”
“Madonna, come fosse una novità! Lo sai meglio di me che ci sono zone d’ombra che non garantiscono sempre una radio copertura ottimale! Cosa vuoi che sia successo?”
Qualcosa è successo, Fulvio lo sente. È una sensazione nel profondo del cuore, che si radica sempre più ad ogni secondo che passa. Un nodo lancinante che si forma all’altezza dello stomaco e che si stringe di secondo in secondo con quelle chiamate a vuoto che si susseguono come un disco rotto.
I secondi passano, diventano minuti indefiniti nell’associazione caotica di pensieri ed immagini. Ogni chiamata, sono ormai oltre una decina, riceve come risposta sempre e solo un silenzio gelido. Quel nodo preme malamente sui polmoni, toglie il respiro. Una serie di brividi freddi gli scuote tutto il corpo. Ora, anche Mauro si è fermato e guarda Fulvio con gli occhi sbarrati ed il labbro incerto.
“Forza, veloce, andiamo alla sede della Delegazione a prendere la macchina! Vieni con me ti prego. L’elicottero è caduto” – grida, mentre sale sulla propria auto con l’evidente volontà di dirigersi verso la sede provinciale del Soccorso Alpino.
“Cosa fai? Dove stiamo andando? Pensi ci metteremo molto? Caduto…cosa?” – si lamenta Mauro mentre sale precipitosamente sul Kangoo rosso in dotazione al Soccorso Alpino. Fulvio non risponde, esce dal piccolo cortile senza nemmeno guardare nello specchietto, fa slittare le gomme sull’asfalto bagnato ad ogni curva, guida veloce, più veloce che può, a sirene spiegate, incurante della pioggia battente, delle altre auto e dei cartelli stradali.
“Mi vuoi dire dove andiamo? Che cazzo succede?”. Mauro è più spaventato che arrabbiato.
Fulvio guarda fisso avanti, il suo volto è una maschera di pietra, il cuore pompa un liquido freddo che gli gela le mani serrate una sul volante, l’altra sul telefono.
“Andiamo su a Pieve di Cadore! È davvero caduto l’elicottero!”
“Ma va, cosa dici! Come fai a esserne sicuro dopo soli quattro o cinque minuti!”
“Ti dico che è così!” – grida l’altro con rabbia – “Reggiti e tienimi l’altro telefono! Se suona, per cortesia, dammelo!”
Mauro riesce in qualche modo ad allacciarsi la cintura e si aggrappa al sedile. Adesso nemmeno lui ha più voglia di parlare.
Il telefono passa tra l’orecchio e la spalla. Con la testa piegata Fulvio, inanella un sorpasso dietro l’altro e intanto parla con il suo vice, Giorgio, intervallando le parole alle bestemmie. Poi chiama Sandro, il coordinatore dei tecnici di elisoccorso, mette al corrente anche lui di quanto è probabilmente successo. L’altro non ci crede, non ci vuole credere.
“Ma dai, ma che cazzo dici! È impossibile, sarà capitato qualcosa ai ripetitori con sto tempo! No dai, sul serio, ti sbagli, non esiste! Falco no! No, no, no!”
Fulvio chiude la comunicazione e sbotta in una lunga serie di imprecazioni.
20
Nella sede del 118 l’operatrice ha perso il conto delle chiamate. Tutte le persone presenti nell’edificio si sono trasferite nel suo box.
“Falco da Papa Charlie, rispondi Falco!! Falco, Falco, Falco… rispondi qui Papa Charlie…”
Ogni tanto qualcuno le dice “Riprova” e lei esegue, con la voce sempre più rotta ed in preda, al pari di tutti i presenti, ad una agitazione evidente, palpabile come lo straordinario nervosismo che pervade in modo indistinto tutta la centrale. C’è chi tenta di contattare il telefono dell’elicottero, chi chiama direttamente i numeri personali dei ragazzi dell’equipaggio, ma nessuno ottiene risposta. Nessuno può sapere. Nessuno vuole né immaginare né credere.
Loris aveva riferito di aver sentito un botto e che insieme con altri si stava recando verso la zona interessata dal sorvolo. Era agitato, tanto da non riuscire a concludere nessuna frase, ma si sarebbe fatto vivo una volta avute notizie certe. Ma in quella stanza sembra che nessuno abbia tempo per aspettare e comunque nemmeno lui risponde.
Ci sono situazioni per le quali non si è preparati. Perché semplicemente ci sono cose che non si pensa possano mai accadere. La mente si rifiuta di contemplare talune possibilità, ne cerca, di necessità, altre per una sorta di difesa istintiva.
Un guasto al ponte radio. Una zona priva di campo. Un campo elettromagnetico.
Qualsiasi cosa, ma non quella più ovvia, perché è semplicemente inaccettabile, non può essere vera e pur ammettendo che sì, forse l’elicottero ha avuto un incidente, sicuramente tutti loro stanno bene.
Non si sono fatti niente.
Sono solo leggermente feriti.
Va bene, gravemente feriti, ma vivi!
Per qualsiasi motivo impossibilitati a rispondere.
Guardano tutti lei e lei guarda loro con gli occhi lucidi e le mani che tremano. Martina, così si chiama l’operatrice, col microfono in mano, scuote la testa, non sa che fare.
“Chiamo Bolzano… dico che mandino a Rio Gere il loro elicottero.”
Se si tiene occupata non ha tempo per pensare. Guarda l’ora sul monitor del computer: le 15:14.
Nel frattempo, il tecnico del Soccorso Alpino, Christian, si mette in contatto con gli uomini della Stazione di Cortina che si trovano a Rio Gere per il monitoraggio della frana. “Dovreste portarvi verso il luogo dove Falco stava eseguendo la ricognizione. Purtroppo, esiste la seria possibilità che sia successo qualcosa di grave.” I dialoghi sono stringati, le risposte poco più che monosillabi.
Appena finito di parlare con Bolzano, Martina compone il numero del Suem di Treviso. Con il 118 della Marca quello Bellunese lavora spesso in sinergia, operatori e volontari si conoscono quasi tutti, almeno di vista. Dopo aver formulato la richiesta di intervento e ottenuto l’ok, l’operatrice può solo immaginare lo stato d’animo con cui l’equipaggio di Leone 1 si sta apprestando a salire sull’elicottero e volare verso Cortina, senza sapere nulla di preciso, temendo il peggio, ma con nel cuore la speranza che invece non sia vero.
Poco dopo, invece, la certezza arriva. Con la forza dirompente di una bomba e con lo stesso effetto distruttivo sugli animi già provati di tutte le persone coinvolte. La notizia dilania le speranze in pochi attimi: “Falco ha impattato con i cavi che corrono sopra il canalone dove stava facendo la ricognizione. Si è schiantato al suolo nel greto del torrente. Non rispondono, sono morti, sono morti, non si muovono!”
Morti. Diego e Michele, Stelvio e Francesco. Morti. Morti tutti quanti. No, non è possibile, non può essere vero…
”Pelikan da Papa Charlie… dove siete? Datemi la vostra posizione… State attenti, state attenti, ditemi dove siete!”
È difficile trattenere le lacrime, la voce esce strozzata.
L’elicottero di Bolzano informa di aver imbarcato a Rio Gere il vecchio Capo Stazione che è anche tecnico di elisoccorso. Conosce bene la zona. Sa assumere decisioni.
“Papa Charlie, non chiamateci più, ci facciamo vivi noi via radio non appena abbiamo notizie precise!”
Forse… magari… può succedere, no?
“Leone 1, Leone 1 da Papa Charlie qual è la vostra posizione? Fate presto, e quando siete lì attenti ai cavi, per l’amor di Dio, attenti ai cavi, attenti ai cavi!”
I secondi sembrano minuti, i minuti ore. Aggrappati a un esile filo di speranza, che, contro ogni logica, contro ogni evidenza, permette loro di non lasciarsi andare, uomini e donne del 118 trattengono il fiato.
21
Chiudi gli occhi. Inspira. Espira.
Apri gli occhi.
Richiudili! Subito!
Per non vedere… Se non vedi non c’è, se non vedi non è vero. Se non è vero, quindi, non esiste neppure.
“Loris… Loris!”
Riccardo è di fronte a lui e lo sta scrollando energicamente per le spalle. Lo fissa per qualche secondo, forse per sincerarsi delle sue condizioni, forse solo per non guardare dietro le sue spalle.
“Tu stai qui! Siediti su questo sasso” – lo accompagna verso un grande masso bianco e gli mette in mano un telefono. “Chiama… chiama Pieve di Cadore! Avvisali che… digli che è successo un casino! Io vado giù, vado lì, vado a vedere se… se… Cazzo! Cazzo cazzo cazzo!”
Dietro la schiena di Loris, una decina di metri più in basso di dove si trova ora, giù in una sorta di stretta gola, Falco giace adagiato su un fianco in mezzo al greto fangoso del torrente, la coda bagnata dall’acqua color caffelatte che scorre ancora copiosa. Una macchia giallastra si allarga sulle rocce. Intorno, pezzi di elicottero, lamiere rosse e bianche, carte geografiche, cavi aggrovigliati e dentro… dentro…
Gli manca il fiato. Dentro doveva esserci anche lui. E invece lui è lì. Vivo.
Inspira. Espira. Lo fa più volte.
Lui è vivo e loro sono morti. Tutti. Riccardo scuote la testa e fa ampi gesti con le mani mentre parla al telefono con qualcuno. Si intravedono le tute rosse, oltre il vetro rotto, oltre gli squarci sulle lamiere. È Diego in quella posizione innaturale? Carte, fogli, pezzi del rotore, un casco sporco di sangue…
Si è già avvicinato prima, ha visto ciò che non avrebbe mai voluto e forse mai dovuto vedere. Ora se ne sta in disparte non gli va di guardare di nuovo, non riesce. Respira odore di kerosene e sangue. Odore di sudore e morte.
Respira. Lui è vivo. Comincia a tremare, incapace di muovere volontariamente un qualsiasi muscolo, di fare un passo.
Un uomo arriva di corsa e si getta dentro la pancia dell’elicottero, grida il nome di Francesco, di Stelvio… Qualcuno lo tira fuori di peso, lo trascina distante, cerca di calmarlo tenendolo stretto per la vita.
Una vibrazione riempie l’aria, un rumore che va crescendo, sembra quello di un elicottero, ma Falco è lì a terra, Falco non vola più. Eppure… Loris alza gli occhi al cielo e solo allora si accorge dell’altro elicottero che gli vola sopra la testa e di colpo realizza che deve fare qualcosa perché è il suo lavoro, lui è un infermiere, un infermiere del Suem 118 e deve soccorrere le persone, anche se in questo preciso istante ha estremo bisogno che qualcuno soccorra lui.
Non glielo lasciano fare, non gli permettono di andare a tirar fuori dalle lamiere i corpi dei suoi amici. Lo trascinano di nuovo in disparte e lo fanno sedere. Ad un certo punto gli si avvicinano persone in divisa che gli pongono una serie di domande alle quali lui risponde come un automa, senza poi, più tardi, ricordare né le domande né le risposte.
Dopo un tempo che non riesce quantificare, viene fatto salire su Pelikan. Ci sono anche Diego e Michele.Loro sono lì, riposti dentro quei sacchi ancora aperti, morti, mentre lui è vivo e non può fare a meno di provareun senso di vergogna. Forse, razionalmente, dovrebbe ringraziare Dio o chi per lui, invece riesce solo a fissare i corpi dei suoi amici e a imprecare sottovoce. Si sente addosso gli sguardi dell’equipaggio altoatesino. Si sforza di pensare a qualche buona ragione per la quale abbia un senso che lui sia lì, seduto e non disteso: sua moglie, la figlia che nascerà tra poco, la famiglia, gli amici, il calcetto… Ma anche Diego e Michele ne avevano altrettante e forse di più, eppure…
Non ci vuole molto ad arrivare in quella piazzola di cemento dove solo poche decine di minuti prima un altro elicottero aveva posato le sue ruote. Qualche minuto, eppure a Loris pare il viaggio più lungo che abbia mai fatto in vita sua. A terra regna la disperazione più totale. Pelikan riparte subito, torna su a Rio Gere a finire il lavoro, a portare giù anche gli altri due. Loris vorrebbe dare una mano, ma gli dicono che non serve, di stare tranquillo. Gli danno pacche sulle spalle, gli sussurrano parole di incoraggiamento evitando di guardarlo in viso.
La sede del Soccorso Alpino di Cortina è a poche decine di metri. Lentamente, rabbrividendo nell’aria fresca della sera ormai imminente, s’incammina verso l’edificio di legno. L’adrenalina sta scemando, una spossatezza infinita si sta impadronendo del suo corpo, ma non della sua mente che continua ad arrovellarsi, a porsi domande che non trovano risposta, ad inviargli fotogrammi nitidi e sbiaditi al contempo, magari sullo stesso particolare di quella giornata assurda.
I carabinieri lo sottopongono a un nuovo fuoco di fila di domande: perché, dove, a che ora, chi… Lui risponde, metodico e preciso, dove può. Il resto sono solo congetture e supposizioni alle quali non si sente di dare credito. Quindi, preferisce non sapere, non ricordare.
Arriva a Pieve di Cadore, nella sede del Suem, senza nemmeno sapere come. Si ritrova lì, con i colleghi e gli amici che gli si stringono intorno, in lacrime. Ci sono anche sua sorella e sua moglie. Noemi ha gli occhi pesti di chi ha pianto a lungo, li conosceva tutti anche lei. Gli va incontro.
“Come stai? Stai bene? Ma… morti tutti? Dio mio…”
Sua moglie lo abbraccia, Loris sente la pancia in cui sua figlia se ne sta al sicuro premergli contro. Strano, non prova niente… Dovrebbe abbracciarla a sua volta? Le sue braccia non rispondono, se ne stanno immobili lungo il corpo. I suoi occhi fissano il vuoto e in quel vuoto vede solo la faccia sorridente di Michele che lo saluta con la mano mentre sale verso le nuvole.
“Loris? Per l’amor di Dio, parla… dì qualcosa! Sfogati, piangi!”
No, non vuole parlare. Non riesce a piangere. Non vuole più toccare questo argomento, né ora né mai! Risponderà solo a chi di dovere. A nessun altro. Sale in macchina, sul sedile dietro, e appoggia la fronte al finestrino freddo.
Chiudi gli occhi. Inspira. Espira.
Lui è vivo.
22
Come si fa? Le serve qualcuno che glielo spieghi. Subito. Immediatamente. Perché bisogna farlo, lei è lì per quello.
Cioè, lo sa benissimo come si fa, logico, è il suo lavoro…
Ma quelli… quelli incastrati tra quei rottami lei li conosce, sono amici, colleghi, con uno di loro ha avuto uno scambio di battute proprio ieri, quando quell’elicottero che ora se ne sta là disteso su un fianco era arrivato a Treviso per il trasferimento di un paziente da Feltre. Con Francesco, il dottore si erano visti mercoledì, ad un corso di aggiornamento. E allora non è la stessa cosa di tutte le altre volte in cui ha dovuto fare quello che ci si aspetta da lei. No, non lo è affatto!
Il Capitano dei Carabinieri ha ricevuto dalla Procura della Repubblica di Belluno l’autorizzazione alla rimozione dei corpi e lo ha comunicato a chi di dovere. Ora bisogna solo estrarli dal groviglio di lamiere e vetri.
Senza darlo a vedere, neanche fosse una cosa proibita, osserva le altre persone che le stanno intorno. Anche in loro percepisce lo stesso disagio: non parlano, guardano a terra, pestano il terreno sempre nello stesso punto, spostano il peso da una gamba all’altra. Più distante, sul ciglio della scarpata, ci sono alcuni curiosi, forse turisti, che se ne stanno muti, quasi timorosi, probabilmente consapevoli di trovarsi di fronte a un’immane tragedia, ma sicuramente il loro animo non è sconvolto come quello di chi le sta a fianco: membri del Soccorso Alpino, personale dei Carabinieri, della Guardia di Finanza ed un paio di Vigili del Fuoco. Gente che di incidenti ne ha visti tanti e di morti anche. Eppure, stanno lì, aspettano un coraggio che forse non arriverà mai. Poi uno del Soccorso Alpino decide per tutti.
“Andiamo!” – dice – e gli altri lo seguono a testa bassa. Alcuni volontari della Stazione di Cortina con il loro medico si avvicinano a quello che resta di Falco, si infilano dal portellone spalancato nella pancia dell’elicottero, facendosi spazio tra le componenti collassate. Con pietà e terrore, ma anche con una qualche difficoltà, li tirano fuori, uno alla volta, posandoli con delicatezza sulla ghiaia.
Lei non riesce, se ne sta in disparte a guardare, le braccia incrociate sul petto, quasi a proteggersi da ciò che sta accadendo davanti ai suoi occhi. Poco dopo, il primo dei quattro è ormai disteso davanti a lei ed alcune strisce rosse tingono la pancia bianca dell’elicottero. Allora, fa quello che deve fare. Prende il sacco salma verde scuro, lascia che i soccorritori vi depongano il corpo di Francesco che la caduta ha scomposto nella controfigura di sé stesso, poi tira su la zip, evitando di incontrare quegli occhi che non hanno più vita, quegli occhi scuri che mercoledì le avevano sorriso salutandola.
Per altre tre volte, assieme al personale della Stazione del Soccorso Alpino di Cortina, ripete gli stessi gesti meccanici. Ogni volta una preghiera, con la speranza che serva a qualcosa, anche se non sa bene a cosa dovrebbe servire, adesso. “Dio, dov’eri prima? Dove eri un’ora fa? Questi ragazzi stavano facendo del bene, stavano aiutando gli altri… che senso ha tutto ciò?”
Osserva gli uomini trasportare le barelle su per il ripido fianco del torrente, poi si siede in mezzo al fango e ai mughi che le pizzicano il collo, appoggia la fronte sulle ginocchia e lascia che i singhiozzi le squassino il petto, che le lacrime scendano a confondersi con l’acqua torbida che scorre un poco più in basso, incurante di chi le sta attorno, incurante anche di quello che possono pensare.
Sente pacche sulle spalle, mani sulla testa, ma non alza gli occhi per vedere a chi appartengono. Alcune delle persone che sono lì le conosce, altre no, ma non fa alcuna differenza. Forse non si rivedranno mai più, ma lei sente che questa tragedia ha indelebilmente marchiato a fuoco ognuno di loro, lasciando una cicatrice profonda che nemmeno quello scalpellino del tempo riuscirà più a cancellare. Forse solo a lenire un poco.
C’è un altro elicottero che aspetta Diego, Francesco, Stelvio e Michele. Saranno le ali di Pelikan a dispiegarsi per il loro ultimo volo. Falco resta lì, più solo che mai, coricato su un fianco in mezzo alla melma e pare quasi che voglia provare a risollevarsi di un poco per salutare i suoi quattro amici, per chiedere loro scusa per non averli saputi proteggere, anche se la colpa non è sua.
Un uomo poco distante da lei continua a rigirarsi tra le mani un cappellino rosso sporco di fango. “Povero Diego…” – continua a mormorare – “Povero Diego…”
Andrea, il tecnico di Leone 1, le tende una mano per aiutarla a rialzarsi. “Andiamo, qui non possiamo fare più nulla purtroppo”. La voce gli trema, ha gli occhi lucidi. Lei si aggrappa a quella mano come se fosse un’ancora di salvezza, si tira in piedi e si asciuga le lacrime. Prima di risalire il pendio strappa un piccolo fiore e lo affida al vento perché lo porti tra i rottami.
23
L’auto divora la strada, il piede spinge a fondo l’acceleratore, la sirena è un grido di dolore che si propaga lungo le valli che da Belluno, passando per Longarone, conducono sino a Pieve di Cadore. È caduto Falco… È caduto Falco…
Mauro guarda fisso davanti a sé, pregando ad ogni sorpasso, ogni volta che le ruote perdono aderenza sull’asfalto bagnato e sembrano scivolare una volta verso un muretto, un’altra volta verso una scarpata. Ogni tanto lancia un’occhiata verso Fulvio, a quella parte di viso che riesce a intravedere dietro il telefono, e gli pare sempre più bianco. Ma che sia vero? Davvero può essere precipitato l’elicottero? Mauro non osa porre domande, ha paura delle risposte. Che comunque sicuramente a breve arriveranno.
Manca ancora qualche chilometro alla sede del Suem, il traffico è sostenuto. Fulvio ha una fretta del diavolo. Vuole sapere cosa è successo ai suoi ragazzi, ma la linea telefonica continua a cadere a causa delle gallerie.
“Datemi strada, cazzo! Ma non la sentite la sirena? Via, Via!”
Ma perché vanno tutti così piano? Che casino! Che maledetto casino! Ci saranno sicuramente un miliardo di cose da fare, carte da compilare, risposte da dare, telefonate da fare e poi…
D’improvviso, nel bel mezzo di uno dei tunnel, come una mazzata, la dura realtà arriva a colpire. Fulvio realizza che l’elicottero non è un vuoto guscio d’acciaio, che non è solo una questione di lamiere accartocciate da qualche parte tra le rocce, come sino a quell’istante aveva concepito… dentro ci sono i suoi amici, che non sono solo amici, sono molto di più e una mano fredda gli serra lo stomaco, un rigurgito acido gli sale in gola, gli viene da vomitare… L’auto sbanda più decisamente, ma è un attimo, non può fermarsi, non può. Deve andare da Michele, da Stelvio, dagli altri.
Michele… o Signore no! Michele no! Non lui, il suo amico più caro, il suo fratello putativo… Piange silenziosamente. Le lacrime gli annebbiano la vista più di quanto già non faccia la pioggia sul vetro. Di nuovo dei rigurgiti liquidi in gola, aspri, amari come mai.
Il primario, il professor Castelli, è già lì che aspetta, fuori della centrale operativa di Pieve di Cadore, con le spalle curve e l’aria rassegnata di chi sa già cosa lo attende. Sale al posto di Mauro, che si siede dietro. Non ha ancora chiuso la porta che già Fulvio riparte, guida come un matto sulla strada fradicia di pioggia in un silenzio irreale rotto solo dalla sirena e dai laconici ammonimenti del medico: “Rallenta! La strada è liscia!”
Ma Fulvio non ascolta, deve correre, pagherebbe per poter volare ed essere lì subito, ma nello stesso tempo vorrebbe girare l’auto e andare nella direzione opposta. È caduto Falco e a lui sta cadendo il mondo addosso e sebbene la speranza dovrebbe essere l’ultima cosa a morire, lui sa, sente, che stavolta è morta anche lei. Morta con tutti loro.
Piange, anche quando risponde al telefono che continua a squillare e all’altro capo le persone gli chiedono se è vero, se è successo realmente, se è proprio sicuro. Che gli chiedono: “E adesso?” Cosa si fa? Adesso come si fa? E lui non ha risposte da dare. Ha solo altre domande – “Perché Dio, perché?” – e la triste, pesante, consapevolezza che niente sarà mai più come prima.
A Cortina i turisti se ne stanno col naso per aria ad osservare curiosi quell’elicottero che si abbassa all’altezza dell’ospedale. Ma non è lo stesso elicottero di qualche ora prima, questo è di colore arancione e bianco.
Molti in paese già sanno. La notizia è scivolata giù dalla montagna più veloce della frana, ma con effetti molto più catastrofici. Sono sguardi attoniti, volti allibiti quelli che si incrociano in Corso Italia, più ancora nelle altre vie meno famose e più defilate dove si incontrano i cortinesi veri.
“Hai sentito? Dicono che sia caduto Falco!”
“Che sia vero? Mi pare così impossibile…”
“Mio cognato dice di sì, su a Rio Gere. “
“Oh Signore benedetto… Ma come è successo? Quei poveri ragazzi!”
“Falco? Impossibile! Non ci credo, non esiste!”
Per gli abitanti della montagna è come aver perso un pezzo della montagna stessa.
L’elicottero arancione porta i corpi delle prime due vittime. Arrivano nel piazzale della locale stazione del Soccorso Alpino e ad accompagnarli ci sono il Capo Stazione, Massimo, due volontari del Soccorso Alpino di Cortina e Fulvio con Mauro, arrivati solo pochi minuti prima.
Lo sguardo del delegato si fissa su un ciuffo di capelli incastrato nella cerniera del sacco verde che sta sorreggendo. Lo riconosce, è quello di Michele. Prende a tremare in modo innaturale, trattenendo il respiro. Sputa sull’erba un grumo caldissimo che gli è arrivato in bocca direttamente dall’inferno che sente in pancia. Poi grida alcune frasi sconnesse al cielo. Non ci vuole molto e anche gli altri due si aggiungono a ricomporre l’equipaggio in un’atmosfera surreale.
È lì, dentro quella casetta di legno, che il cuore si ferma, che la testa si svuota, che il mondo sparisce. Resta solo il nulla. Resta anche un prima, ma nessun dopo. Forse anche nessun domani. I momenti allegri, le facce sorridenti, le cene, le gite, le esercitazioni, le birre, le cazzate, le discussioni… tutto lì, tutto in quei corpi rigidi, scomposti, con le tute rosse lacere e sporche, con gli indumenti tecnici strappati e bagnati di sangue.
Fulvio è un tipo che sa dosare equamente fatti e parole. Ma adesso non sa che fare. E non sa nemmeno cosa dire. Fissa quei volti che non sono più quelli dell’amico fraterno, dell’esperto pilota, del medico che non si risparmiava mai, dell’elisoccorritore con la montagna nel cuore. L’ultimo volo ha fatto scempio di quei sorrisi, di quegli occhi, di quei corpi che qualcuno più tardi sarà costretto a ricomporre in quella posa tanto simile a un placido sonno dal quale però non si sveglieranno mai.
Il primario, bianco in viso, non fa altro che andare avanti e indietro scuotendo la testa: i suoi ragazzi, i suoi splendidi, meravigliosi ragazzi. Una sorta di automa senza alcun movimento elastico, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e i piedi che ogni tanto incespicano a causa del passo incerto.
In un silenzio che pesa come un macigno, dove nessuno sente più nemmeno i battiti del proprio cuore, dove i pensieri si lasciano trasportare dall’emozione, dove sarebbe facile battere i pugni sul tavolo e inveire contro Dio o contro il destino, è proprio lì che Fulvio capisce che tutto questo non deve essere accaduto invano, che ha il dovere di lottare con tutte le sue forze affinché cose simili non succedano più. Lo promette, in silenzio davanti a loro, anche se vorrebbe prometterlo urlando: “Mai più cavi della morte nelle nostre valli!”
Esce da quella casetta di legno dove i gerani colorati alle finestre si sforzano di parlare ancora di vita e con gli occhi puntati verso il cielo che sta diventando scuro, prega laicamente affinché Falco e i suoi angeli gli infondano la forza necessaria per mantenere fede a quello che non può rimanere come una mera enunciazione imposta dalle circostanze. Assieme a lui, Massimo, un ragazzo dal cuore d’oro e di innata generosità d’animo, che aveva suggerito di riporre le salme proprio in quella casetta da poco inaugurata e che, sin dall’inizio, aveva cercato di rassicurarlo.
24
Verso le cinque e mezza del pomeriggio, sopra Rio Gere, le nubi grigie lasciano spazio a un fazzoletto di cielo azzurro che sembra riportare un po’ di luce. Lo si può osservare in una foto che ritrae un traliccio, un pilone al quale è rimasto attaccato un solo cavo. Gli altri due sono lì, a terra, aggrovigliati a quel che resta di Falco,impronte digitali del colpevole, evidenti prove del reato, anche se di reato in realtà non si tratta, visto che la normativa vigente non prevede alcuna segnalazione.
Guardare quel pezzo di cielo azzurro e quell’elicottero bianco e rosso malamente coricato su un fianco tra il fango e i sassi, che giace là, senza più alcuna possibilità di spostarsi, è un pugno allo stomaco che lascia senza fiato e toglie ogni speranza. Sono rimasti alcuni uomini a vegliare quei pezzi di lamiera. Mettono in sicurezza il relitto per evitare che un’eventuale nuova piena lo trascini via. Lavorano con gli occhi velati, le gole strozzate, scuotendo di tanto in tanto il capo. Nessuno ha voglia di commentare. Nessuno azzarda soluzioni.
La notizia della tragedia corre, rimbalza, si amplifica ed esce dalla valle in cui ha avuto origine e si allarga ad abbracciare una comunità intera che si sente, come Falco, con le ali spezzate ed il cuore devastato. La piccola, tranquilla, semisconosciuta e misconosciuta città di Belluno avrebbe fatto volentieri a meno di sentire il suo nome nei telegiornali e notiziari nazionali, di vederlo impresso sui giornali online e reiterato in decine e decine di pagine web e, quindi, su tutta la carta stampata per diversi giorni. Diego, Stelvio, Francesco e Michele diventano subito figli e fratelli di una provincia intera che si stringe intorno al Suem e al Soccorso Alpino in un abbraccio silente, ma ricolmo di un calore genuino, autentico e per questa ragione palpabile.
È ormai notte quando Fulvio fa rientro a Pieve di Cadore col primario. Appena arrivato, le persone presenti nei pressi della centrale operativa gli si fanno intorno e chiedono se è vero, se è successo realmente. A loro non resta altro che annuire e piangere insieme a tutta quella gente in silenzioso, naturale abbraccio collettivo di protezione.
Pochi attimi, prima di entrare e sedersi attorno al tavolo della saletta riunioni per un’analisi su quanto successo, scontata considerazione che si riassume in un tragico conto delle persone morte. Il Direttore sanitario dell’Ulss presiede, suo malgrado, la riunione. Egli tenta invano, nonostante l’ottimo eloquio, di rassicurare tutti, utilizzando tra l’altro un’inconsueta dolcezza. Il volto è una maschera intrisa di stanchezza, mentre parla non riesce a trattenere i singhiozzi che vengono dal profondo. Luca, questo il suo nome, è davvero una brava persona che non sa in realtà cosa fare, essendo razionalmente consapevole che non potrà spostare indietro le lancette di un orologio beffardo che ha tolto all’improvviso ogni riferimento al tempo.
Falco non c’è più e a farne le veci ci sarà da domani Leone 1. Fulvio ha richiesto espressamente al dottor Castelli che l’elicottero di Treviso possa essere lasciato a Belluno ed il collega della Marca, nel frattempo sopraggiunto a Cortina, ha acconsentito senza obiettare alcunché, comprendendo appieno la necessità: è di fatto impensabile lasciare queste zone senza elisoccorso nel bel mezzo della stagione turistica.
Quindi, l’elicottero giallo rimarrà tra le Dolomiti fino a quando un altro Falco arriverà a dispiegare le sue ali su queste valli. Perché non si può lasciare che quanto accaduto vanifichi il lavoro di tanti anni e di tante persone. Loro quattro non lo avrebbero permesso.
“Avanti, sempre avanti!”. Nonostante tutto e tutti. Solo questo riesce a dire Fulvio cercando di trattenere le lacrime prima di intraprendere il viaggio di rientro con Giorgio, il suo vice, un uomo che sembra piegato in due da un dolore al quale, per indole, non riesce a dare sfogo.
Si trovava ad un simposio di scultura ad Asiago quando era stato raggiunto dalla laconica, quanto involontaria ed aggressiva telefonata di Fulvio, che gli comunicava cosa fosse probabilmente accaduto a Cortina. Poco dopo, un’altra telefonata aveva spento la residua speranza che Giorgio si era concesso il lusso di alimentare. Allora aveva lasciato cadere a terra le sgorbie, le ginocchia si erano piegate improvvisamente verso il porfido dove risaltavano trucioli chiari e grumi di segatura bianca. Riavutosi dallo shock, si era scusato con gli scultori delle postazioni vicine e, dimenticando mezza attrezzatura nello stallo in cui stava lavorando, era salito in macchina alla volta delle Dolomiti. Zona Cortina, non sapeva ancora dove di preciso, ma verso le montagne che spesso aveva scalato assieme a Stelvio.
Stelvio era per Giorgio quello che Michele era per Fulvio. Basta questa analogia per poter immaginare con quale stato d’animo e quali sensazioni in testa e nel cuore, abbia percorso il tragitto, da solo, stordito, incapace a volte di trattenere i singhiozzi.
Ora seduto di fianco a Fulvio al posto di Mauro, tornato a Belluno qualche ora prima, si sentiva appena uscito da una centrifuga. Ciò nonostante, capiva che l’amico iniziava ad accusare il calo della tensione: correva non badando affatto ai limiti, benché in viso gli si leggesse una stanchezza infinita che avrebbe forse richiesto una maggiore prudenza.
La strada del rientro verso Belluno scorre veloce tra lunghi silenzi e brevi ricordi, inframezzati dagli squilli dei cellulari e da qualche imprecazione che va ad aggiungersi al lungo elenco di tutte quelle proferite in quel pomeriggio. Giorgio osserva il buio fuori dal finestrino, le luci accese nelle abitazioni e pensa a quelle quattro case dove da stasera ci sarà un posto vuoto e freddo, a quelle famiglie devastate dallo stesso suo dolore, ma elevato all’ennesima potenza.
Accende la piccola lampada sopra la testa, trova in un vano del cruscotto alcuni fogli di block notes e comincia a scrivere quello che gli passa per la mente.
“Cazzo stai facendo?” – gli chiede Fulvio.
Giorgio non risponde alla domanda, ma sprona poco dopo l’amico.
“Dì qualcosa, quello che ti viene in mente su oggi… su loro… su questa giornata di merda!”
L’altro guarda avanti, i pugni stretti sul volante, fino a farsi venire le nocche bianche. Dopo qualche attimo di silenzio, sbotta:
“Ho perso quattro amici. Andati via, così… puff… spariti! Cosa dovrei fare? Cosa dovremmo fare? So che loro non avrebbero mollato e, quindi, non lo faremo nemmeno noi, ma è dura… porca troia se sarà dura…”
“Ecco, bravo! Poi?”
“Poi cosa? Cosa ti devo dire? Che mi mancano già le loro voci, i loro volti e che mi rivedo davanti ogni secondo i loro corpi devastati? Che non si può morire così? Che se ne sono andati.” – prosegue Fulvio – “Come fanno le gocce di brina che il primo sole scioglie al mattino e non resta che il ricordo?”
La penna scorre sulla carta. Una pagina piuttosto densa, poi un’altra fino a quando Fulvio dice “Adesso parla tu!” Poi resta solo il rumore del motore, a fare da sottofondo a pensieri che non vengono più espressi a parole, ma che aleggiano nell’aria mischiandosi della stessa malinconia.
25
La camera ardente allestita nell’obitorio dell’Ospedale di Belluno diventa un posto dove il dolore assume quasi una consistenza fisica. Si traduce nel via vai pressoché continuo delle tante persone che desiderano portare un saluto, nei mozziconi di sigaretta disseminati per terra, nelle lattine di birra vuote ed allineate sul muretto, negli occhi pesti di quei ragazzi in divisa rossa che stazionano un po’ dentro ed un po’ fuori dal locale, nel profumo dei fiori che si mescola a quello dei corpi, nelle labbra serrate che non riescono più a distendersi in un sorriso.
Quelli del Soccorso Alpino li vegliano, a turno, per tutto il tempo. Assieme a loro, in alta uniforme, due agenti della Polizia di Stato. Impensabile lasciarli soli, quei fratelli caduti mentre non facevano altro che portare il loro aiuto, mentre facevano quello che erano abituati a fare.
Passano le autorità, prodighe di frasi di circostanza e di promesse che con ogni probabilità verranno puntualmente disattese, ma che campeggiano con titoli cubitali per giorni interi su tutti i giornali locali e nazionali. Passano soprattutto le persone comuni, le casalinghe, le commesse, i pensionati, gli operai, tutti a rendere omaggio ai quattro angeli del Suem e del Soccorso Alpino. Centinaia di persone in lenta processione, vestiti di dolore, di mestizia estrema ed eguali nello sguardo cupo ed il più delle volte fisso a terra.
Fulvio è incazzato nero. Il direttore generale dell’Ulss di Belluno, avvertito immediatamente della tragedia, non ha ritenuto necessario interrompere le ferie per rientrare in città. Ha preferito continuare la battuta di caccia in qualche regione dell’est di cui il Delegato non ricorda il nome, piuttosto che pensare a come fare e cosa fare.
“Mi dici – spiega ad una donna che gli chiede il motivo del suo evidente nervosismo – come cazzo si può avere un atteggiamento così mediocre? Come si fa a non cogliere almeno l’opportunità di dare un senso, anche con la propria presenza istituzionale, al lutto di un’intera comunità? Alla fine, erano anche uomini suoi no? Prima o poi farà i conti con la sua coscienza, uno con una statura morale così non merita però neppure di guardarle le nostre montagne!”
Ad avere il tempo di stare lì ad ascoltare, si potrebbero sentire, dette a bassa voce tra un sospiro e l’altro, tante storie, i ricordi di chi con quei ragazzi ha condiviso gioie, dolori, percorsi di vita o anche solo momenti di lavoro all’interno del Soccorso Alpino.
Fulvio fa di continuo la spola tra il piazzale antistante l’obitorio e le salette interne per accompagnare qualcuno che magari non se la sente di varcare quella soglia da solo. Ha la faccia stravolta di chi non dorme da giorni, pare invecchiato di colpo, ingobbito sotto il peso degli eventi.
Sta organizzando assieme a Luca, il Direttore sanitario e ad una solerte dirigente dell’Ulss, i funerali: non è un’impresa facile poiché i parenti vorrebbero quattro cerimonie distinte e in giorni diversi. Si trova, dunque, costretto a spiegare qualcosa che forse non a tutti è immediatamente comprensibile e cioè che un simile lutto, quello di un’intera provincia, esige una cerimonia collettiva in cui il popolo della montagna si riconosca da una parte e, dall’altra, faccia sentire il proprio calore a tutte le famiglie dei defunti allo stesso modo e nello stesso tempo e spazio. Ci sarà dopo, il tempo per il dolore privato, ma ora la comunità ha bisogno di identificarsi in tutti quattro e non già in uno solo di loro. Senza alcuna distinzione.
Nascosto dietro agli occhiali scuri, la mascella che si muove nervosa a triturare l’ennesimo chewing gum, se ne sta in mezzo ai suoi uomini ad ascoltare i loro sfoghi e le loro domande. Ogni tanto si sfoga anche lui, come una pentola a pressione lascia che un po‘ della tensione accumulata si allenti attraverso le parole e la condivisione degli eventi.
“Vi giuro! Una bestemmia coi fiocchi che l’hanno sentita bene tutti quanti!”
“Ma… Fulvio… in Duomo? Cioè… proprio dentro il Duomo?”
“Cazzo, in Duomo si! Me li hanno fatti girare di brutto! Ma pensa se è possibile mettersi a discutere su chi deve sedersi e dove: qui il Sindaco, no meglio il Ministro, però il Presidente… ma forse anche il Direttore e l’altro Presidente… Ooooooh, basta!! Davanti ci vanno i parenti! Punto e stop senza mediazione alcuna! Non sono funerali di Stato, quindi, vada a farsi fottere il protocollo e chi si ostina a volerlo imporre!”
“Bravo capo! Hai fatto bene! È ora di finirla con ste menate, in momenti come questo poi… Ma, a proposito… il Presidente della Repubblica viene, vero?”
“Non ne ho idea, ma se non lo fa perde di sicuro un’ottima occasione per offrire la simbolica vicinanza dello Stato e far sentire, se non un calore autentico alle famiglie, almeno una qualche parola di cordoglio comunicata però di persona!”
“Vedrai che non viene Fulvio, mettiti il cuore in pace! Quelli là dentro non avevano una tuta mimetica, ma una tuta rossa, non erano impegnati in alcuna missione di pace, né dipendenti dello Stato!”
Fulvio scuote la testa, sputa il chewing gum e si accende una sigaretta. La pensa anche lui così, pensa che sia un autentico schifo e che lo dirà prima o poi a uno di quei giornalisti che lo tempestano di telefonate per sapere “chi”, “cosa”, “dove”, “come”, “quando” e “perché” e poi scrivono ugualmente il cazzo che vogliono…
Decide di entrare per vederli ancora un’ultima volta, per tentare di cancellare dalla mente quei volti devastati visti a Cortina. Vorrebbe ricordare solo i bei momenti passati con loro, ma proprio non gli riesce. Forse quel giorno arriverà, prima o poi, forse riuscirà ancora a dormire un sonno senza incubi. Nell’attesa, schiaccia sotto il piede il mozzicone di sigaretta e a capo chino varca quella soglia che gli pare tanto l’ingresso dell’inferno dove va lasciata ogni cosa, anche la speranza.
26
Non occorreva essere indovini né dover consultare qualche oracolo per sapere che sarebbe andata a finire così. Tuttavia, la cosa fa male lo stesso, un dolore che si aggiunge ad altro dolore, diverso per natura, ma ugualmente pesante.
Il 25 agosto 2009, ad Auronzo di Cadore, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, prende parte in mattinata alla cerimonia che dichiara ufficialmente le Dolomiti “Patrimonio dell’Unesco”. Queste favolose montagne, che Alto Adige, Veneto (Belluno per dire la verità) e Friuli si spartiscono, entrano a far parte dei beni mondiali da tutelare e salvaguardare, in quanto uniche.
All’inizio del suo discorso Napolitano trova il modo di ricordare brevemente anche i quattro ragazzi periti tragicamente nell’incidente del Cristallo. Ma non si ferma, nel pomeriggio, per i funerali. Ligio ad un protocollo che probabilmente per qualcun altro non avrebbe esitato a infrangere, non ritiene necessario porgere omaggio, nemmeno con un breve passaggio alla camera ardente, a quattro ragazzi morti su quelle montagne che poco prima ha celebrato e che per le stesse si sono sempre prodigati sino a perdere la propria vita. Una deviazione di quindici, forse di venti minuti al massimo non è stata possibile.
Venuti a conoscenza delle sue intenzioni, molti dei Sindaci invitati alla cerimonia di Auronzo si sono rifiutati di parteciparvi, preferendo presenziare ai funerali dell’equipaggio di Falco e innescando, come ovvio, tutta una serie di polemiche che in un giorno come questo sarebbe stato opportuno lasciare da parte, ma che nel merito non potevano che essere associate alla più cristallina delle verità: Napolitano doveva portare il saluto dello Stato ai famigliari. Il Sindaco di Cortina, praticamente il promotore dell’iniziativa, è orgogliosamente tra questi.
Ben prima delle diciassette, ora prevista per la cerimonia funebre, la Basilica Minore del Capoluogo, è già gremita e la gente comincia ad affollare il piccolo sagrato e tutte le aree circostanti. C’è tanto rosso in Piazza Duomo, il rosso delle divise degli operatori del Suem della provincia e dell’intero Veneto e quello un po’ più scuro degli uomini del Soccorso Alpino. Ma sono presenti tutti i Corpi ed Enti dello Stato, sia dentro sia fuori la chiesa, ormai diventata impraticabile. Nessuno parla, il silenzio sembra quasi irreale, solo le campane a lutto fanno sentire il loro pianto per quei quattro figli.
Qualche refolo di vento prova a smuovere le bandiere a mezz’asta, listate a lutto, che dai balconi di Palazzo Rosso, sede del Comune e Palazzo dei Rettori, sede della Prefettura, osservano lo spazio sottostante riempirsi di persone e i muri esterni del Duomo colorarsi di una moltitudine di fiori provenienti da enti e istituzioni, ma anche da tante persone comuni di ogni parte d’Italia. Le serrande dei negozi sono abbassate, non solo in città, perché la partecipazione a questa tragedia riguarda l’intera provincia.
Ci sono varie autorità in rappresentanza di altrettante istituzioni, ma soprattutto ci sono le persone semplici, i frequentatori della montagna, ma anche chi con la montagna non ha nulla a che fare, gli amici, i conoscenti, quelli che semplicemente hanno ritenuto doveroso essere lì.
Quattro auto grigie, scortate da quattro jeep rosse con le bande gialle del Soccorso Alpino, arrivano e si dispongono una di fianco all’altra vicino al portone d’ingresso. Un brivido percorre i presenti. Sono gli uomini del Soccorso Alpino e del Suem a portare nel loro ultimo viaggio Michele, Francesco e Stelvio, a caricarsi sulle spalle i loro amici, i loro fratelli così tragicamente strappati alla loro voglia di vivere. Diego, invece, è sorretto dai colleghi della Fly Dolomiti. Le bare di legno chiaro sono ornate di rose bianche e rosse, i colori di Falco, e una dietro l’altra vengono inghiottite dalla penombra della chiesa.
Gli occhiali scuri non riescono a nascondere le lacrime di Fulvio, lacrime che da quel tragico pomeriggio non smettono di rigargli le guance. Si tiene aggrappato alla bara di Michele, in quell’ultimo freddo abbraccio. Sente che è l’amico a sorreggere lui e non il contrario. Vorrebbe solo gettarsi a terra e picchiare i pugni sul porfido grigio e inveire contro il destino, contro i maledetti cavi. Perché, nonostante tutto ciò che è stato detto e scritto in questi giorni, nonostante le inchieste aperte spingano verso un errore umano del pilota, lui non può smettere di pensare che se quei maledetti fili fossero stati segnalati, ora lui non sarebbe lì. Nessuno dei presenti sarebbe dove si trova adesso. Soprattutto quelli distesi in quelle quattro casse di legno chiaro.
27
Thomas si guarda in giro curioso. Butta la testa all’indietro ad osservare il soffitto altissimo fino a quando il collo gli fa male. Questa chiesa è enorme, non come quella del suo paese dove va qualche volta con i nonni. Non era mai stato qui, prima. Osserva gli affreschi, le colonne, il dipinto dietro l’altare e tutte quelle persone strette le une alle altre, in silenzio. Di fianco a lui è seduta la mamma, con le spalle curve e le mani che stringono nervosamente un fazzoletto. Ogni tanto gli accarezza la testa e gli regala un sorriso tirato. Persone che lui non conosce passano e le stringono la mano, qualcuno la stringe anche a lui che non sa mai quale deve dare e ogni tanto si sbaglia, anche se sono giorni che non fa altro che stringere mani e ricevere baci e abbracci da chiunque. E gli unici che invece vorrebbe ricevere, non li avrà mai più. Mai più.
Ma quanto è lungo un “mai”?
Sabato pomeriggio la pioggia aveva costretto lui e il resto della compagnia dentro casa per manifesta impraticabilità del campo. Stare al chiuso era una cosa che lo annoiava a morte, non sapeva come trascorrere il tempo nonostante la quantità industriale di giochi e giocattoli sparsa in giro per la sua cameretta. Per consolarlo la mamma gli aveva promesso la torta al cioccolato, la sua preferita, e un profumino delizioso, quando l’aveva tolta dal forno, aveva impregnato l’aria. “Devi aspettare che si raffreddi!” – lo aveva ammonito vedendo la sua manina già allungata verso il dolce. Poi era squillato il telefono.
Era andata a finire che la torta non l’aveva mangiata nessuno. Thomas non aveva nemmeno la più pallida idea di dove fosse finita. Quando la mamma aveva smesso di piangere, lo aveva preso in disparte e abbracciandolo, senza aspettare un secondo in più, gli aveva detto che il suo papà era volato in cielo. Volare in cielo? Beh, non era quello che faceva sempre? Ma dentro, se lo sentiva, lo sapeva che stavolta era diverso. C’era qualcosa di definitivo in quelle parole, come quando alla fine di un cartone animato compaiono le scritte bianche e allora capisci che è finito davvero.
“È caduto l’elicottero, amore, un incidente… è caduto.” La stretta delle braccia era una morsa, il petto della mamma sussultava sotto i singhiozzi. Lui, con la testa appoggiata alla sua spalla, aveva fissato il muro, percependo una strana sensazione farsi strada, un senso di vuoto, di freddo. Di paura come quando la notte si svegliava da solo nel lettino e non sapeva più cosa fare. Poi era stato tutto un via vai di gente, la casa ricolma di persone, il prato pieno di automobili. I ragazzi del cortile, suoi compagni di giochi, erano venuti tutti, con i genitori o i nonni, tutti a testa bassa, muti, impacciati, si vedeva lontano chilometri che avrebbero voluto essere ovunque tranne che lì.
Solo quello sbruffone di Simone si era lasciato scappare l’ennesima occasione per stare zitto: “Te l’avevo detto che non era Superman!”
Lui non aveva replicato. Non aveva neanche pianto, non lo aveva nemmeno accennato alla mamma che non aveva certo tempo per quelle che, improvvisamente l’aveva capito anche lui, erano solo delle sciocchezze. Però prima, in quella stanza sotto l’ospedale, glielo aveva raccontato al suo papà.
“Non ti può rispondere, ma ti può sentire. Non occorre nemmeno che parli, basta il pensiero, un bel pensiero!” E lui, col pensiero, gliene aveva dette tante di cose… Gli aveva detto che anche se erano solo tre giorni che non lo vedeva gli mancava tantissimo e che sperava che fosse felice adesso che poteva stare sempre su tra le nuvole bianche e leggere a volare. Gli aveva chiesto di far sorridere di nuovo la mamma e di aiutarlo a diventare un bravo calciatore di seria A o, altrimenti, un astronauta. Se proprio non riusciva, almeno uno di quelli che fanno lavori con i mattoni e le gru.
Sembrava che dormisse il suo papà dentro quella cassa di legno. Per un attimo aveva pensato di andare lì e pizzicargli il naso come faceva a casa quando si addormentava sul divano, ma la mamma gli stringeva la mano talmente forte da fargli male, quasi avesse paura che potesse scappare chissà dove.
Poi, lo zio Pietro lo aveva preso in braccio e lo aveva portato di fuori, dove c’erano tutte quelle persone con la divisa rossa. Ci erano passati in mezzo e si erano diretti verso il parcheggio, ma prima di arrivarci lo zio si era fermato, lo aveva posato per terra e si era acceso una sigaretta. Erano rimasti lì, in silenzio, a fissare i mattoni rossastri dell’ospedale. Alcuni minuti dopo era arrivata la mamma, il viso nascosto da grandi occhiali scuri. Lo zio l’aveva abbracciata a lungo, poi cingendole le spalle l’aveva accompagnata alla macchina. Lui li aveva seguiti sentendosi, per un attimo, più solo che mai.
Un brusio che aumenta pian piano di intensità lo distoglie dai suoi pensieri. Da fuori giunge il rumore di applausi, dentro l’organo comincia a suonare. Thomas si volta verso l’ingresso. Ehi! Ma quella è la foto del suo papà! Tira la manica della giacca della madre, vuole fargliela vedere, ma lei gli lancia uno sguardo torvo e allora decide di lasciar perdere. Ci sono i suoi colleghi della Fly Dolomiti, piangono tutti. Gli fa strano vedere un adulto che piange, lo mette a disagio e qui ce ne sono tanti, troppi. Si stringe al petto il suo pupazzo di Superman e sente una lacrima scivolargli sulla guancia. Poi un’altra più calda della prima.
Il suo adorato papà sorride da quella foto appoggiata sul legno chiaro. Di sicuro sorride anche adesso che con Falco e i suoi amici volano alti, alti senza scendere mai.
Quanto è lungo un “mai”?
28
Dentro la chiesa, nella penombra resa ancora più impenetrabile da un dolore che si può toccare con mano, tra colpi di tosse e singhiozzi a stento trattenuti, la tragedia è una presenza davvero del tutto tangibile anche ad un occhio distratto.
Non ci sono telecamere, il Vescovo di Belluno, in accordo con l’Ulss, il Suem e il Soccorso Alpino, ha deciso di vietare riprese televisive all’interno, ritenendo, a ragione, che occhi artificiali non avrebbero avuto alcun motivo plausibile per aggiungersi a quei diecimila occhi già presenti, tra le persone all’interno della chiesa e la massa di quelle rimaste fuori.
L’omelia è breve, non servono tante parole, in casi come questo sono di troppo, non dicono nulla che già non sia stato detto. Il celebrante si sofferma sul valore della solidarietà e del servizio verso i più deboli, annoverando tra questi chi si trova in difficoltà in montagna. Loda gli uomini e le donne del Soccorso Alpino e del 118 per il loro impegno, parla dell’imponderabile e di un disegno noto solo a Dio.
Molte persone avevano avanzato la richiesta di poter fare un breve intervento, porgere un saluto, ma per non scadere in un mero presenzialismo verbale, il Soccorso Alpino si era battuto affinché venissero lette, senza però dire chi le avesse scritte, solamente alcune parole tenute assieme da un filo sottile che si chiama amicizia.
Il Vescovo si fa dunque portavoce di quelle frasi scritte da Fulvio e Giorgio la sera della tragedia, mentre rientravano verso casa: “Diego, Francesco, Michele e Stelvio se ne sono andati come solo le gocce di rugiada sanno fare, al mattino, quando imperlano i fili d’erba tra le rocce ed un sole tiepido inizia a colorarne di ocra e rosa le pareti.
Se ne sono andati nel fragore di un silenzio che non riesce più a scaldarci di gioia e risa perdutamente ormai lontane, ma che in ogni attimo, in ogni istante, ci ricorda, ci insegna e ci ammonisce a dover mantenere inalterata la passione per la montagna e per le sue comunità, la solidarietà e lo stesso spirito che ci farà proseguire nel servizio.
Loro avrebbero fatto altrettanto. Loro, così avrebbero voluto.
Grazie Diego, Francesco, Michele e Stelvio.”
Di colpo in quella chiesa fa troppo caldo, c’è qualche malore. L’odore dell’incenso sembra più pungente del solito, si mescola a quello del sudore e della sofferenza di tutta quella gente. Qualcuno quell’odore, se lo porterà addosso per sempre. Alcuni, invece, a quell’odore ne aggiungeranno altri, del tutto identici a questo.
La celebrazione è finita. Regna sovrano sempre il silenzio. Michele, che è stato l’ultimo ad uscire dall’abbraccio mortale di Falco, è stato anche l’ultimo ad entrare in Chiesa. Almeno l’uscita dalla Cattedrale gli tocca per primo, così può assorbire tutto quel lungo applauso di diecimila mani che sembra non finire mai, quel grande abbraccio collettivo, l’affetto di migliaia di persone in rappresentanza di altre migliaia che per un motivo o per l’altro non sono in questa piazza, ma che ugualmente piangono per questi quattro angeli delle montagne. Dall’interno giungono ancora le note di “Signore delle cime” mentre, sul sagrato, si aggiungono Francesco, Diego e Stelvio.
Fulvio accarezza quella cassa di legno chiaro. Sa che quello sarà l’ultimo contatto fisico col suo caro amico. Sa che il peggio verrà dopo, senza i suoi sorrisi, le sue facce buffe, le serate trascorse a raccontarsi i bei tempi andati… Ne hanno condivise di avventure assieme e adesso, che strano, gli paiono pure poche. Quello che non riesce a farsi andar giù è che non ne potranno condividere altre e, mentre adagia la bara sul pianale di quell’auto grigia troppo lunga, mentre il rumore di Leone 1, l’elicottero del Suem di Treviso venuto a salutare i suoi amici, sovrasta quello mesto delle campane a lutto a fine cerimonia, la sente nascere dentro quella forza invocata tre giorni prima con gli occhi rivolti alle Tofane, sente chiaro il dovere di continuare, di fare di più e meglio per questa gente, per queste montagne. Per loro quattro e per chi loro quattro hanno amato e generato. Fare qualcosa per trovare un rimedio a questi cavi killer che diventano pistole puntate alla tempia del pilota di turno. Pistole sempre cariche, dalle quali non si può esattamente sapere quando partirà un colpo, ma si sa che quando partirà sarà impossibile evitarlo.
“Chi dà la propria vita per salvare quella degli altri non morirà mai” – ha detto il Vescovo durante l’omelia – “E’ un grande atto d’amore, accorrere nel silenzio della montagna pur conoscendo la fragilità delle cose”.
Belle parole. Parole appunto. Vere, cariche di significato, ma che falliscono miseramente nel loro intento di consolare cinquemila persone che piangono questi quattro amici che la maggior parte di loro nemmeno conosceva. Falliscono perché non riescono a riportare il tempo indietro ad un prima che non c’è più. Non di tanto, ma di quel poco che basta per rivedere quattro sorrisi.
È l’ora degli abbracci e delle lacrime, delle frasi di circostanza e delle pacche sulle spalle. Leone 1 scompare dietro i tetti delle case, gli occhi levati al cielo tornano a posarsi sui volti bagnati di pianto, su quei grappoli di tute rosse che si stringono assieme per darsi forza. I portelloni dei carri funebri, fauci diaboliche, si chiudono lenti. Michele, Stelvio, Diego e Francesco, si divideranno ora per l’ultimo tratto della loro missione, ognuno farà ritorno al proprio paese, ma per tutti quei quattro nomi resteranno per sempre legati a quello di Falco e tra di loro, una cosa sola, inscindibile.
Splendidi ragazzi, eroi, angeli… in questi giorni sono stati gli aggettivi più usati e se qualcosa di buono si può trovare dentro a una tragedia simile è forse l’aver portato visibilità a queste persone, gli uomini del Soccorso Alpino e del Suem, ma anche alla categoria dei piloti e dei tecnici aereonautici, il cui lavoro è troppo spesso, anzi quasi sempre, misconosciuto. Gente che mette a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri, di quanti sono vittime di un incidente o di un imprevisto o di chi, spesso, affronta la montagna senza adeguata preparazione, sopravvalutando le proprie capacità.
Mentre stringe mani e ripete parole e frasi che ormai sembrano non avere più senso, Fulvio sta già pensando a come adoperarsi, a quali strade percorrere per fare in modo che queste morti non siano state vane, che tragedie simili non debbano più accadere. Perché è innegabile che, in questo caso, la mano dell’uomo abbia avuto un proprio peso nel determinare la tragedia. Un pilota come Diego, abituato ad incunearsi tra le montagne, a sfiorare la roccia, a restare sospeso immobile a mezz’aria, tradito da degli stupidi cavi non segnalati perché non c’è una norma che lo imponga chiaramente!
In mezzo alla folla, quasi un’oasi nel deserto, trova Alex, gli occhi azzurri celati dagli occhiali da sole. L’amico lo afferra per un braccio.
“Via, via! Andiamo via di qua, non ne posso più!”
Fulvio si lascia trascinare incurante delle voci che lo chiamano, delle mani che vorrebbero trattenerlo. L’adrenalina ha smesso di circolare e per la prima volta da quel maledetto 22 agosto si concede il lusso di sentirsi terribilmente, inesorabilmente stanco.
29
Nonostante tutto, il tempo continua incessantemente a scorrere.
11 novembre, San Martino di Tours. Universalmente riconosciuto nell’icona e nel simbolo di quell’uomo a cavallo che dona metà del proprio mantello a un povero. È il patrono, assieme a numerose altre città piccole e grandi, anche di Belluno.
Nei giorni a ridosso di tale data sono varie nella cittadina le manifestazioni in suo onore. Tra queste spicca, oramai da quasi quarant’anni, il Premio San Martino. Si tratta di un riconoscimento che viene assegnato a una persona vivente nativa di Belluno o ad un’associazione operante in città che si sia distinta in alcuni specifici settori, con concrete opere sociali, assistenziali, filantropiche o culturali. Il Regolamento prevede che le segnalazioni dei candidati debbano essere effettuate dai cittadini entro il 31 agosto di ogni anno, quindi vagliate dalla Conferenza dei Capigruppo del Consiglio Comunale che individua il vincitore.
Anche se i giorni a disposizione sono pochi, le proposte perché il premio venga conferito ai quattro uomini di Falco arrivano numerose. Gli appelli in internet e sui giornali si moltiplicano per fare in modo che, se non lo Stato, almeno la città capoluogo della provincia di Belluno renda merito a Diego, Francesco, Michele e Stelvio. Ciò, però, non è possibile, a meno di non voler modificare l’articolo due del Regolamento, iter per il quale non ci sarebbe in ogni caso il tempo necessario per gli obbligatori passaggi che prevedono la delibera del Consiglio Comunale.
Ecco, quindi, che anche stavolta Martino deve dividere il suo mantello in due parti, ma per sé non ne tiene nemmeno una: un pezzo, infatti, va al “Suem 118 dell’Ulss n. 1”, l’altro al “Cnsas – 2^ Zona * Delegazione Dolomiti Bellunesi.”
Mercoledì 11 novembre 2009, ore 11:30: al Teatro Comunale non c’è un posto libero. Decine le persone, tra cui molti bambini, che aspettano fuori, nella Piazzetta Vittorio Emanuele. Sindaci, autorità, amici e parenti dei quattro di Falco faticano ad entrare. Tante giubbe e tute rosse, uomini e donne del Soccorso Alpino e del 118. Quel premio, in fin dei conti, è anche loro, soprattutto loro, per la sofferenza che ancora trasuda dai loro sguardi.
Sul palco ci sono Fulvio e il professor Castelli. Ma non sono soli ci sono anche i quattro amici di Falco, la loro presenza è palpabile nelle parole, nei gesti, nei cuori di tutti i presenti. Negli occhi lucidi dei loro cari seduti in prima fila, in quel silenzio che ritorna, quasi irreale, a far da accompagnamento. Anche se il riconoscimento non è a loro direttamente dedicato, quei nomi vengono evocati più volte durante la cerimonia. La motivazione dell’assegnazione prende spunto dall’opera che i due organismi, congiuntamente, svolgono a favore della tutela e dell’incolumità delle persone, ma anche per aver dato vita a un corpo di professionisti che, sebbene siano nella stragrande maggioranza della loro attività dei volontari, sono persone altamente specializzate che ogni giorno, con generosità, si mettono al servizio di chi si trova in difficoltà.
Il primario lascia che il Sindaco gli metta al collo la medaglia di San Martino. Il professore è visibilmente emozionato mentre ringrazia tutti quelli che dopo la tragedia si sono stretti attorno al Suem e ai suoi uomini. Pur consapevole di avere una parte rilevante nel ruolo che esso riveste oggi, rivolge un pensiero anche a quegli amministratori che nel passato hanno saputo capire l’importanza di un simile servizio. Calca doverosamente la mano sulla questione dell’elisoccorso notturno, ritenendolo un’assoluta necessità per questo territorio disagiato. È del tutto consapevole che senza rimarcare e ribadire ad ogni piè sospinto cosa serva a questa provincia in termini di servizi, ben difficilmente questi vengono poi offerti e, successivamente, assicurati. Bisogna sudarseli uno ad uno. Poi torna a quel 22 agosto, a quel giorno che lo ha svuotato nell’anima, lasciandolo senza la forza di continuare, di andare ancora avanti e con un mucchio di interrogativi a cui non sa dare risposta.
“Ho deciso di ritirarmi” – dice con l’aria mesta, ma il tono fermo di chi non torna sui propri passi.
“La tragedia di Falco mi ha tolto l’entusiasmo e la serenità, la voglia di esserci. Il Suem ha bisogno di persone piene di energia, non di persone che quell’energia l’hanno persa tutta, all’improvviso, quel giorno. Se ci ripenso, mi sembra ancora impossibile che tutto ciò sia potuto accadere, tenuto conto dei rigidi protocolli, della preparazione degli uomini e di tutti i controlli che vengono effettuati. Eppure, è successo e nonostante tutto me ne sento indirettamente responsabile. Per questi motivi, trascorsi i tempi tecnici per trovare un sostituto, il sottoscritto lascerà a qualcun altro l’onere, ma anche l’onore di portare avanti la struttura che tanti anni fa io, con alcune persone lungimiranti e decise, abbiamo prima fortemente voluto e, poi, messo in piedi con fatica ed orgoglio.”
A Fulvio, tocca invece ricevere la pergamena, come da lui richiesto per non dare il destro a chi crede che, giocando in casa, sarebbe stato più logico tenere la medaglia. Commosso come poche altre volte è successo, la tende per svariati secondi verso i suoi uomini che applaudono, ben sapendo che quel gesto è rivolto a Diego, Francesco, Michele e Stelvio, ma anche a tutto il Soccorso Alpino “Dolomiti Bellunesi.” La guarda, legge e rilegge le parole scritte in rosso. “…un corpo di professionisti competenti e sensibili che quotidianamente e generosamente…”
Ed è su questo che nel suo discorso pone l’accento: sull’abnegazione di tante persone, uomini, ma anche donne che dedicano parte del loro tempo, togliendolo spesso agli hobby, al lavoro, agli affetti e al riposo, non solo per prestare soccorso, ma anche per tenersi costantemente aggiornati e preparati. Nonostante ciò, il Soccorso Alpino deve lottare costantemente con lo Stato e la Regione per avere i fondi e i mezzi necessari per poter operare, visto che, ancora, pur godendo di una definita forma giuridica che gli attribuisce responsabilità notevoli, spesso non ha le necessarie finanze per sopportare quello stesso peso.
“In questi anni sono stati portati a termine quasi undicimila interventi, segno che il nostro lavoro non è marginale né secondario per queste zone. Malgrado ciò, ogni singolo giorno ci troviamo a dover alzare la voce per poter ottenere qualche euro in più o per avere qualche atto ben scritto per poter operare con maggiore qualificazione, cioè una legislazione netta e chiara che tuteli e non ostacoli l’attività del Soccorso Alpino. È un lavoro snervante al quale però questo premio, sebbene giunto dopo una tragedia che ci ha scossi profondamente, dà il giusto riconoscimento. Ora c’è un’altra battaglia da portare avanti ed è quella per avere, almeno in Veneto, una legge sugli ostacoli al volo, cosa per la quale mi adopererò in Regione con ogni mezzo possibile ed anche con quelli impossibili!”
È un lungo discorso il suo, nel quale non tralascia di nominare gli uomini che in questi decenni hanno fatto la storia del Soccorso Alpino “Dolomiti Bellunesi”, non solo con le opere, ma anche e soprattutto con la forza delle idee.
L’applauso di tutti i presenti è lungo, gli occhi lucidi sono tanti e i quattro “angeli” di Falco sicuramente sorridono da sopra le nuvole.
30
La firma in fondo al foglio è un po’ diversa dalle migliaia di altre apposte in calce ai più svariati documenti per anni e anni, per gran parte della sua vita. A ben guardare il tratto è più leggero, meno deciso, ed è solo per un caso che, alla fine, la lacrima non sia caduta sulla carta dove di certo avrebbe formato un alone blu, mischiandosi con l’inchiostro della penna.
Sono passati solo pochi mesi, ma sente di non riuscire a sopportare un giorno di più. Uno zaino pesante. Troppo pesante. Falco non è rimasto il solo senza ali in quella gola grigia, sfumata di marrone, su a Rio Gere. Anche il suo cuore non è più riuscito a volare, a saltare oltre l’ostacolo, a continuare a combattere con la stessa forza e tenacia di prima. È consapevole che questo suo gesto cambierà molte cose, lo sa lui e lo sanno tutte le persone che gli sono state vicine in questi venticinque anni, dalla costituzione del Suem a Pieve di Cadore, da quel primo giugno del 1988, data ufficiale di nascita del servizio di elisoccorso in provincia di Belluno.
In queste settimane hanno tentato in tutti i modi di fargli cambiare idea, di convincerlo a restare. Inutilmente. Quei quattro visi, quelle quattro tute rosse, quei corpi ricomposti con estrema delicatezza nel garage della sede del Soccorso Alpino di Cortina non riesce proprio a cancellarli dalla mente. Salutarli al mattino, con un sorriso, una battuta e poi, la sera, salutarli di nuovo, per sempre…
Diego, Michele e Stelvio. E Francesco, soprattutto lui, che era sempre al suo fianco, il suo braccio destro pronto a difendere a spada tratta il Suem e l’elisoccorso. Quasi un figlio.
Non era uomo di montagna Francesco, veniva da un posto vicino al mare, eppure di questi luoghi si era innamorato, tra queste valli aveva deciso di vivere. Rispettava chi si ostinava a voler restare tra le crode, conosceva la fatica e le difficoltà dell’abitare in posti disagiati. Aveva fortemente voluto entrare a far del Soccorso Alpino, associazione nella quale credeva ciecamente al punto da considerarla partner ideale per una proficua collaborazione e per la quale si spendeva, assieme al buon Fulvio, in appassionate battaglie destinate a concludersi magari con esigue conquiste e immense incazzature, ma che servivano in ogni caso a fare un altro piccolo passo in avanti, senza mai indietreggiare. Il professor Castelli sa che l’amico non avrebbe approvato questa sua decisone. Nelle lunghe notti insonni trascorse a fissare il soffitto, a rivedere il macabro film di quella giornata, se l’era immaginato spesso con i suoi occhi scuri e la faccia accigliata a dirgli che lui non lo avrebbe fatto, che lui non avrebbe lasciato.
“Scusa, Fra” – gli scappa di dire a mezza voce, chiamandolo così, come usavano tra di loro, con un’abbreviazione che però suonava anche come “fratello”.
I sensi di colpa gli hanno fatto visita per mesi, dopo la tragedia. Un continuo chiedersi se le sue decisioni, il suo modo di fare avessero in qualche modo influito sul corso degli eventi o se si fosse semplicemente trattato di fatalità. Serviva davvero quella ricognizione sopra la frana? Si era supposto che avrebbero potuto esserci delle persone sotto o comunque in reale difficoltà in zona Cristallo…. Ma fatta la prima, c’era bisogno della seconda? Secondo Francesco, ma anche secondo Christian, l’uomo del Soccorso Alpino in centrale, era necessaria, per non lasciare dubbi considerata anche la particolare fattispecie operativa e ricognitiva. Certe volte era anche troppo puntiglioso! Lui avrebbe forse potuto impuntarsi, dire di no, che non ce n’era nessuna necessità? Non è riuscito a darsi risposte, anche perché si trattava di scelte assunte in piena maturità e libertà.
Durante la cerimonia di consegna del Premio San Martino, aveva reso pubblica la sua decisione di ritirarsi ed ora è lì, nel suo studio con la lettera che lo avvicinava alla quiescenza appena firmata e un enorme peso sul cuore, tutto dentro il cuore. Spera, nella sua più segreta intimità, che il suo successore, chiunque sia, accetti la sfida con lo stesso entusiasmo e lo stesso impegno che lui ci ha messo fino a quel sabato d’agosto.
Piega la lettera e la infila in una busta. Prima di uscire lo sguardo gli cade sulla foto di quell’elicottero bianco e rosso appesa sul muro di fronte.
“Ovunque voi siate, ragazzi, buttate ogni tanto un occhio quaggiù…”
Poi spegne la luce e si chiude la porta alle spalle.
31
Giallo. Non è stato facile abituarsi a questo colore. Eppure, dopo il tragico schianto, il cielo del dopo Falco si è tinto del giallo di Leone 1, l’elicottero del Suem di Treviso, rimasto tra le montagne sin dalle ore successive a quel terribile pomeriggio, costretto fin da subito a non far rimpiangere chi lo aveva preceduto, chiamato a portare quegli uomini e quelle donne che non hanno voluto fermarsi, che hanno deciso di andare avanti comunque, a testa bassa, nei luoghi dove c’era bisogno di loro. Forse, a ragion veduta, correndo anche dei rischi se solo si teneva conto della componente emotiva.
Nell’immediato, nella confusione, nello smarrimento, i protocolli che solitamente regolano l’attività di elisoccorso non sono stati modificati. Nessuno ha considerato lo stato psicofisico di chi solo il giorno prima era stato chiamato a ricomporre i corpi degli amici, di chi aveva visto Falco ridotto a un cumulo di rottami tra quei sassi. Prese nel vortice delle emozioni, le persone che dovevano mettere in conto anche questo aspetto non lo hanno fatto, forse pensando che la tensione non potesse essere di colpo eliminata poiché sarebbe equivalso a far subentrare maggior paura e maggior timore di quanto già non ci fosse.
Per fortuna la professionalità, componente base per chi compie questo genere di attività, e forse l’occhio vigile da lassù dei quattro amici scomparsi ha fatto sì che tutto andasse per il meglio, nonostante il grande numero di missioni, anche molto complesse tecnicamente, svolte già l’indomani della tragedia.
Domenica, infatti, due importanti interventi, uno in Marmolada e l’altro sullo Spiz Nord de Mezzodì, hanno fatto capire, se ancora ce n’era bisogno, l’essenzialità dell’elisoccorso in queste zone, la necessità di un simile servizio in una terra vocata al turismo montano e, comunque, fatta al novantacinque per cento di montagne, con tutto quello che ciò comporta a livello di infrastrutture.
Non è possibile lasciarsi spaventare, chinare il capo e dichiararsi sconfitti, ma anzi bisogna reagire, stringersi insieme e guardare avanti. Sono queste le parole che circolano tra gli addetti ai lavori, stretti in un abbraccio corale tra di loro e dalla comunità.
Nemmeno Loris si tira indietro. Dà la sua disponibilità e quando gli vengono comunicati i turni da effettuare sale su quell’elicottero giallo senza esitazioni, senza paura. Col ricordo di quella giornata chiuso e sepolto nel cuore, con quello dei suoi amici vivido e presente. Volare, non è altro che un modo per stare più vicini a loro. Lassù tra le nuvole.
Leone 1, compie il suo dovere per tutto il tempo che rimane a Pieve di Cadore. Poi a dicembre, precisamente il giorno 5, quasi un regalo di San Nicolò, il santo antesignano di Babbo Natale e che in molte parti della vallata proprio in questa notte porta dolci e regali ai bambini, arriva il nuovo Falco. Una gioia anche per quei bellunesi campanilisti per i quali avere un elicottero non propriamente bellunese che gira tra le loro montagne, per quanto questo si sia dimostrato generoso, non andava tanto a genio.
Anche I-KORE è giallo, ma con lo stesso naso rosso e la linea a onda che va dalla punta alla coda del suo predecessore.Non c’è più la scritta “Fly Dolomiti”, sostituita da quella “Global Fly”, ma il mezzo è lo stesso, un Agusta A109S Grand che però, fin da subito, pare non essere fatto della stessa pasta del vecchio Falco.
Il nuovo elicottero sembra essere meno potente e questo è un problema abbastanza grosso, non tanto per quanto concerne la velocità o le prestazioni ad essa riconducibili, ma per quanto riguarda la capacità di levarsi in volo a certe quote con determinati pesi e temperature. Capita troppo spesso di dover lasciare a terra qualcuno, o l’infermiere o il tecnico di elisoccorso in base alla tipologia di missione e questa dinamica diventa una notevole complicazione in caso di due interventi consecutivi. Se infatti l’elicottero è impegnato in un ipotetico trasferimento da Belluno a Treviso e durante il rientro viene avvertito di un soccorso da effettuare ad esempio sulla Schiara, si trova costretto ad andare a Pieve di Cadore per caricare il tecnico di elisoccorso e, al di là del costo, è il tempo che si perde il vero problema, in situazioni dove qualche minuto, talvolta qualche secondo, può fare una sostanziale differenza.
“L’elicottero ha le stesse identiche prestazioni di quello di prima” – sentenziano i tecnici dell’Agusta chiamati a verificare il problema mostrando dati e tabelle. Non lo dicono apertamente, ma fanno capire ai piloti che avevano sollevato la questione che forse è solo una loro impressione, una sensazione dettata da una sorta di “affetto” verso l’altro mezzo.
Come su quello bianco, anche, su quest’elicottero giallo, c’è, attaccato sul portellone, il grande adesivo con il logo di Dolomiti Emergency, una onlus fondata nel 2005 da un gruppo di enti ed associazioni bellunesi, quali l’Ulss 1 e 2, il Cai, lo stesso Soccorso Alpino e varie associazioni volontaristiche, con lo scopo di sostenere e migliorare il soccorso sul territorio.
A chi si tessera attraverso il pagamento di una modesta quota, viene assicurato il rimborso delle spese sostenute per la ricerca e il trasporto con qualsiasi mezzo, compreso l’elicottero, copertura valida in tutta l’Europa geografica a patto che l’intervento sia disposto dal 118 o struttura similare. Parte della quota associativa viene destinata alla formazione del personale, all’acquisto di materiale per il primo soccorso, all’informazione e alla prevenzione. Nonostante Dolomiti Emergency esista da anni, non sono molte le persone che la conoscono, vuoi per una scarsa o errata visibilità, vuoi perché convinte che tanto a loro non potrà mai capitare nulla. Con quell’adesivo sul portellone di Falco la speranza è che la visibilità dell’associazione aumenti, visto che i benefici dovuti a un incremento di tesserati andrebbero a ricadere direttamente sul territorio in favore degli abitanti e di chi frequenta per qualsiasi motivo la montagna.
Qualche volta, succede che I-KORE, per manutenzioni, lasci il posto al suo gemello I-RAKE, preciso in tutto tranne che nel colore rosso, che lui non ha, e questa mancanza lo fa sembrare più serioso, quasi più triste, ma poco importa a chi sta male e deve essere soccorso. L’importante è che un elicottero ci sia e che porti il suo equipaggio dove serve. Che sia funzionale allo scopo cui è preposto. L’importante è che chi di dovere, capisca il valore dell’elisoccorso e si prenda a cuore il suo destino, per il bene di questa provincia e di chi la frequenta anche solo per godere delle sue meraviglie naturali.
Da terra, ignara di tutte queste problematiche, la gente vede passare l’elicottero giallo e pensa che, per fortuna, Falco è di nuovo in volo.
32
Succede di nuovo. Altri quattro. A pochi giorni dal termine del 2009, anno che sembra non finire mai, altri quattro uomini del Soccorso Alpino, questa volta di Trento, perdono la vita in un’operazione di soccorso notturna nel gruppo del Sass Pordoi, travolti da una valanga.
Altre giovani vite spezzate, altri soccorritori che stavano facendo il loro volontario dovere, con i loro cari a casa ad aspettarli.
Il Soccorso Alpino è una grande famiglia per la quale questa ennesima tragedia è un altro pugno allo stomaco, una ferita che si riapre, una sofferenza mai sopita che riesplode acuta. A distanza di pochi giorni, però, al dolore si somma la rabbia.
Non c’è, infatti, nemmeno il tempo di accogliere con un sospiro di sollievo l’arrivo del 2010 che subito una notizia giunge a surriscaldare gli animi: ai quattro soccorritori di Trento verranno assegnate le Medaglie al Valor Civile.
Da più parti si leva la protesta, gli attriti con le vicine Province a Statuto speciale sono sempre all’ordine del giorno. I bellunesi soffrono parecchio nell’essere sempre considerati cittadini di serie B, ma se ormai a questo sono abituati e di malavoglia lo possono tollerare, il fatto che anche sui morti, per lo più appartenenti alla stessa associazione, si facciano queste distinzioni, proprio non va loro giù.
Per fortuna tutto viene presto chiarito, si tratta solo di un grosso equivoco generato dal fatto che l’iter per il conferimento delle medaglie agli uomini di Falco è stato avviato già il giorno dopo la tragedia dal Presidente della Provincia ed è a buon punto, mentre per quanto riguarda i trentini, si è dovuto muovere direttamente il Ministro Maroni e, quindi, la notizia ha avuto maggior risalto. Probabilmente questa è stata la versione fornita per non esacerbare ancor più l’ambiente, sebbene le comunità di queste valli sappiano perfettamente quanto sia inutile prendersela per cose che, anche se auspicate come segno di riconoscimento, non vanno minimamente a intaccare lo stato delle cose.
A febbraio, la notizia che a Diego, Francesco, Michele e Stelvio, verranno conferite le Medaglie d’Oro al Merito Civile, viene accolta come giusto e doveroso riconoscimento intriso di profondi significati e va a sopire tutte le polemiche e le illazioni più o meno velate che avevano permeato i discorsi dei bellunesi nelle ultime settimane.
La cerimonia si svolge il 16 aprile in un Teatro Comunale nuovamente gremito delle autorità provinciali e regionali, decine di membri del Soccorso Alpino, oltre che ovviamente dal personale del Suem 118.
Viene superato il limite della capienza, tanto che qualche centinaio di persone, tra cui anche sta volta molti bambini, sono assiepate all’esterno e seguono la cerimonia sul maxischermo montato per l’occasione. Come accaduto per il premio San Martino, il colore rosso spicca su tutto il resto. Ci sono persone arrivate anche da fuori regione, a tributare l’omaggio ai quattro eroi, questo sono diventati ormai, per la gente, i caduti a Rio Gere.
Seduta in prima fila, Elena si accarezza la pancia pregando in cuor suo che il bambino se ne stia buono e tranquillo, lì dentro, ancora per un poco. Alla data presunta manca ancora qualche giorno, ma è consapevole che quella ginecologica non è una scienza esatta e che i bambini quando decidono di nascere non guardano di certo il calendario, né tantomeno l’agenda degli impegni della mamma.
Aveva voluto essere presente a tutti i costi, nonostante le caviglie gonfie e doloranti, il mal di schiena e l’impossibilità di stare seduta in una posizione decente per più di dieci minuti. Non poteva mancare. Non avrebbe potuto farlo.
Di fianco a lei è seduta Laura, la compagna di Diego, che tiene la mano del piccolo Thomas. Le sorride, un sorriso un po’ tirato. Non si sono più viste dall’ 11 novembre, ma si sono sentite qualche volta per telefono. La loro amicizia discende da quella dei rispettivi mariti, da cene di lavoro e grigliate nel bel giardino vicino al lago. Elena sa che Laura si sente addosso il peso una colpa che non ha, che si sente gravata dal fatto che il pilota era il suo uomo e che l’inchiesta giudiziaria sembrerebbe propendere verso la tesi dell’errore umano. Lei non lo ha mai pensato neanche per un minuto che sia stata colpa di Diego. Ha maledetto il destino, la sorte, i cavi, ma non le è mai passato per l’anticamera del cervello di incolpare quel povero ragazzo per ciò che era successo. Fa ciao con la mano a Thomas che le risponde allo stesso modo.
Il bambino sbuffa, sicuramente vorrebbe essere da tutt’altra parte. La madre gli accarezza la testa. “Non so se è la primavera, ma è un po’ giù, è meno brillante e sempre abbastanza imbronciato. Mi chiede spesso di suo padre, prende i vecchi album di foto e se li sfoglia per ore… sono un po’ preoccupata!”
La donna parla a voce bassa, anche se, dato il brusio alle loro spalle, non ce ne sarebbe bisogno.
“Credo sia del tutto normale, forse solo adesso sta realizzando che davvero suo papà non tornerà più. Ma se ti fa sentire più tranquilla ti do il numero di uno specialista davvero bravo.”
Elena lavora nell’ambiente medico e ha gli agganci giusti. “Grazie, per scrupolo, sai…”
Seduto vicino a Thomas c’è il nonno, il padre di Diego. Toccherà a lui salire col nipote su quel palco a ritirare la medaglia. Laura e Diego non erano sposati e secondo la legge, in mancanza di vincoli di sangue o giuridici, lei è considerata alla stregua di un’estranea. Vivevano insieme da più di dieci anni, avevano comperato assieme quella casa vicino al lago. Erano una famiglia.
A lei però non è concesso di salire quei gradini nemmeno per accompagnare il suo piccolo ometto. Qualcuno ha provato a protestare, a chiedere uno strappo alla regola, a dire che sembra di essere ancora nel Medioevo e nel più profondo dell’oscurantismo, ma la legge è legge, quindi a Laura non è rimasto altro da fare che chiedere a quello che lei considera comunque suo suocero di accompagnare Thomas a ricevere l’onorificenza.
Dall’altra parte della corsia centrale, apparentemente invecchiata di dieci anni, Anna, la moglie del medico. Se ne sta con le mani in grembo e lo sguardo fisso a terra, alza appena la testa per accennare un saluto a un collega di Francesco che viene a stringerle la mano. L’apatia e la rassegnazione che già trasparivano a novembre sembrano essersi impossessate definitivamente di lei, trasformandola dalla donna solare e vitale che tutti conoscevano nell’ombra di sé stessa. Nonostante la vicinanza degli amici e delle persone care, tornare alla normalità sembra un percorso ancora tutto in salita.
“Anna cara, coraggio!” La madre di Stelvio, una donna minuta dai capelli grigi e piuttosto corti, le poggia una mano sull’avambraccio.
L’altra risponde con un timido sorriso. “Grazie” – mormora a mezza voce – “Ci sono momenti in cui mi sembra di non potercela fare. Poi però penso a lui che da lassù mi guarda e mi dico che non posso mollare, che non lo posso deludere… Ci vorrà ancora del tempo, ma ne uscirò, se Francesco da sopra le nuvole continuerà ad aiutarmi, ci riuscirò!”
“Anche io sono convinta che il mio Stelvio dall’alto ci osservi e che non voglia affatto vederci tristi. Stava facendo quello che amava e questo ci consola, se così si può dire. Ma lo sa anche lei che tipo era, uno la cui presenza non passava certo inosservata e ci manca… ci manca… tanto!”
Velocemente la donna estrae dalla borsa un fazzoletto e tampona le lacrime che le rigano copiose le guance. Sussulta un poco, per poi ricomporsi, quasi provando vergogna di un sentimento vero. Accanto a lei il marito e la figlia sembrano persi nei loro pensieri. Si riscuotono solo quando il coro sul palco intona la sempre struggente “Signore delle cime” che riesce ad ammutolire per qualche minuto tutto il teatro, richiamando tutti a una postura ancora più rigorosa. Al termine della canzone tocca al Sindaco della città aprire i discorsi delle autorità, tributando subito un doveroso ringraziamento agli uomini del 118, del Soccorso Alpino e ai piloti e tecnici della Global Fly.
“Il vostro è un servizio prezioso, che ognuno di voi svolge offrendo molto in cambio di poco, qualche volta solo un grazie e, spesso, nemmeno quello.”
Dopo di lui il Presidente della Provincia, che insiste particolarmente sul ruolo dell’elisoccorso: “La vostra presenza contribuisce a far sentire più sicuri e protetti gli abitanti di queste valli e chi questo territorio frequenta. C’è un nuovo elicottero che solca questi cieli, ma il vecchio Falco e i suoi “angeli” gli volano sicuramente a fianco”.
È, quindi, la volta del Governatore del Veneto che porta, in modo semplice, ma assolutamente toccante la vicinanza della Regione e dei veneti ai familiari. Ricorda la telefonata giunta quel sabato 22 agosto che lo aveva lasciato letteralmente impietrito. “È giusto” – continua – “Che eroi come questi vadano ricordati e soprattutto che non vada dimenticato l’alto numero di vite umane che essi hanno contribuito a salvare. Hanno offerto loro stessi per i valori in cui credevano lasciando in chi li ha amati un dolore enorme, dolore che però può diventare il cemento vero di una comunità.”
Prima della consegna delle medaglie, è il Ministro dell’Interno, a portare i saluti del Presidente della Repubblica e di tutto il Governo, unitamente al suo personale abbraccio ai familiari. “Il sacrificio di questi ragazzi ha un alto valore umano e simbolico. Essi hanno dato la loro vita per solidarietà e devono essere un esempio per tutti, soprattutto per i giovani!”
Seduto in prima fila Thomas non ne può più di ascoltare tutte quelle chiacchiere. Si è dovuto anche mettere la camicia, indumento che odia, e sorbirsi migliaia di “mi raccomando non sporcarti” da parte di chiunque.
“Quando mi danno la medaglia mamma!”
“Ssssh! Parla piano! Non è tua la medaglia, è di papà! Tra poco, abbi pazienza!”
Quasi avesse udito le parole di Laura, la moderatrice invita a salire sul palco i congiunti delle quattro vittime di Rio Gere. Quando sente il suo nome, il bambino si guarda in giro un po’ spaesato. Poi la mano ruvida del nonno afferra la sua e si lascia trascinare docile su per la scaletta. Quando si volta e vede tutte quelle persone che lo fissano, l’unica cosa che vorrebbe fare è scomparire. Cerca la mamma con lo sguardo, la vede giù seduta che gli fa segno di stare tranquillo e lui continua a fissarla, anche quando quel tizio con la barba e gli occhialetti rossi e buffi si inginocchia davanti a lui per attaccargli sulla giacca quella specie di spilla con la bandiera italiana. Gli viene un po’ da piangere. Pensa che è stupido che diano i premi alle persone morte invece che darglieli quando sono vivi, anche se la mamma gli ha spiegato il perché a lui sembra stupido lo stesso. Sposta gli occhi da quelli della madre solo per osservare furtivamente, quasi a propria difesa, tutta quella gente che applaude e sembra non voler smettere mai, applausi che durano minuti interi.
Si, è vero, forse il suo papà non era Superman. Però tutti dicono che è un eroe. E anche se manca quel super davanti, lui è comunque orgoglioso di essere suo figlio.
33
Per fortuna ogni tanto qualcosa di buono capita. Per fortuna, qualche volta, lavorare a testa bassa, impegnarsi, lottare per quello in cui si crede fermamente porta a risultati concreti.
In quegli ultimi mesi Fulvio e Giorgio avevano condiviso in una forte simbiosi un percorso politico ed amministrativo per cercare di dare una ragione a quelle morti o, se non proprio ragione, almeno un barlume di senso a cui aggrapparsi e far aggrappare altri.
Giorgio aveva predisposto molti studi ed analisi di supporto all’attività di Fulvio che si era, invece, concentrato nei rapporti istituzionali e politici, cercando di creare un insieme di intenti che sarebbero dovuti confluire in una unanime decisione e portare, in sintesi, ad alcune proposte di legge sul tema ostacoli al volo.
Lo sforzo mediatico prodotto senza soluzione di continuità con le testate giornalistiche e le emittenti locali, oltre ad uno speciale sulla Rai di grande impatto emotivo durato svariati minuti, erano serviti a mantenere altissima l’attenzione della pubblica opinione sul problema dei cavi killer, ma il tempo era trascorso lasciandosi dietro solo trite enunciazioni.
È l‘8 giugno del 2012 quando il Consiglio Regionale del Veneto pone all’ordine del giorno dei propri lavori la legge sugli ostacoli al volo. Pochi giorni prima era stata consegnata a tutti i membri del Consiglio la copia di un volume realizzato qualche tempo addietro per ricordare i ragazzi di Falco. L’intento era creare in loro consapevolezza di cosa si accingessero a votare ed esercitare le ultime pressioni nel caso qualcuno non fosse fino in fondo convinto dell’importanza di quel provvedimento.
Fulvio e Giorgio si sono dati appuntamento con largo anticipo non volendo lasciarsi sfuggire neppure una parola della discussione che a metà mattina si sarebbe svolta in fase di approvazione della legge.
L’auto fila a velocità sostenuta verso la laguna, diventata per quel giorno fulcro delle aspettative di mesi interi passati a ragionare su cosa fare perché non avesse ad accadere più alcuna tragedia. Nessuno dei due ha tanta voglia di parlare, solo qualche frase di tanto in tanto, quasi a voler rimarcare che quel velo di mestizia che avvolge il loro avvicinarsi ad una meta importante, è in realtà qualcosa più di un velo. Un macigno riposto loro malgrado nella parte più nobile del cuore: non possono dimenticare il motivo per cui vogliono e devono essere presenti.
L’acqua salmastra diventa una scia bianca e spumosa dietro il motoscafo che li porta a Palazzo Ferro Fini, dove arrivano un poco trafelati a causa dell’agitazione che sentono crescere di minuto in minuto. Vengono fatti accomodare nella sezione aperta al pubblico dove non fanno tempo ad adagiarsi sul cuoio rosso delle poltroncine che il progetto di legge viene posto subito in votazione.
L’emozione è alle stelle, al punto che entrambi non riescono a mascherare un certo tremore che si arresta solo quando il Presidente dell’aula dà lettura dell’esito della votazione: la legge regionale è cosa fatta.
I due amici si stringono in un forte abbraccio con gli occhi gonfi per una volta non di dolore, ma di felicità per questo primo obiettivo raggiunto.
Alla fine, hanno dimostrato di aver ragione, c’è davvero bisogno di una legge che disciplini questi maledetti ostacoli! Purtroppo è valida solo a livello regionale ed ancora tutta da applicare nella pratica, ma almeno c’è, ed è un qualcosa in più di prima.
Nel resto del Paese, solamente a Bolzano qualcosa di efficace è stato fatto in termini legislativi. Nonostante la tremenda tragedia, in questi anni teleferiche ed elettrodotti non segnalati hanno continuato a starsene tranquilli al loro posto, in attesa delle prossime vittime. Ma al di là delle leggi scarse e del tutto inadeguate, quella che manca è la forma mentale con il quale questo problema andrebbe affrontato.
Nonostante dopo il 22 agosto 2009 tante siano state le voci a favore della necessità di creare nuovi e reali standard di sicurezza, allo stato attuale delle cose, in Italia la strada da fare è ancora molto complessa, in termini di matura consapevolezza del problema, e tutta in marcata salita. Una strada dannatamente erta.
Fulvio non è uno che si arrende facilmente, ma è conscio che la sua battaglia è quella di Don Chisciotte coi i mulini a vento, ciò nonostante sa che la deve combattere, per i suoi quattro amici e per tutti quelli che, per motivi simili, la morte ha strappato alla loro voglia di vivere. Manca poco all’ennesimo anniversario che ritorna sempre eguale. Nonostante il tempo abbia in realtà leggermente smussato i contorni della vicenda, soprattutto nei particolari più tecnici, il dolore continua a pulsare inalterato sotto la pelle, portando con sé rimpianti di parole non dette e giorni non vissuti. A Michele era legato da un doppio filo, anzi, da una corda e sebbene negli ultimi anni le loro avventure avessero subito un brusco rallentamento per quelli che vengono chiamati i fatti della vita – lavoro, famiglia, impegni vari – i ricordi erano incisi a fuoco nella mente e nel cuore. Gli manca, tanto, troppo.
Provvidenziale, Giorgio lo distrae dai pensieri tristi: “Un brindisi non lo facciamo?”
Prima di riprendere il motoscafo che li avrebbe riportati al parcheggio del Tronchetto, Fulvio si lascia trascinare in un bacaro dove i due amici si concedono un gratificante spritz.
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Fulvio muove distrattamente l’indice sulla rotella del mouse. Sullo schermo scorre il lungo elenco di cartelle e file che sembra non finire mai. File che per anni si sono moltiplicati nel suo computer, crescendo come una sorta di malattia, un proliferare di dati che per un lungo periodo non ha avuto pausa.
Si consola pensando che, d’ora in avanti, la lista non si allungherà più. Forse. Quello che poteva fare sente di averlo fatto con coscienza: dare un segno, aiutando quelle quattro famiglie a rendere un po’ meno enorme il loro dolore, cercare di far avere loro un minimo di giustizia. La guerra dei risarcimenti si è finalmente conclusa, ma è stata una battaglia lunga e aspra, a tratti anche assurda.
Si sente stanco, sfinito, svuotato. Fax, mail, lettere, telefonate hanno scandito le sue giornate fin dalla sera di quel 22 agosto 2009. Ha avuto a che fare con avvocati, legali, periti assicurativi, l’Ulss, la Fly Dolomiti, dirigenti, funzionari e svariati altri personaggi che gli hanno reso la vita difficile. Si è dovuto districare tra codici, leggi, polizze, cavilli, clausole, certificati, copie, fotocopie, fotografie, dichiarazioni, chili di carta… Avrebbe potuto non farlo poiché il ruolo che rivestiva non lo obbligava ad espletare simili funzioni. Spesso, però, i ruoli decadono davanti alla passione e a quelli che si chiamano principi morali che impongono di fare ciò che si ritiene giusto. A fargli da spalla, anzi alle volte a sostituirlo, Giorgio con il suo assiduo supporto, con un unico dovere: stare vicino a quelle famiglie.
Hanno dovuto vivisezionare ogni parola, passare ogni frase ai raggi X, come se una sola virgola potesse fare la differenza! Passeggero o soccorritore? Personale medico o membro d’equipaggio? Rischio “volo” o rischio “terra”?
Il solo ripensarci faceva loro venire bruciore allo stomaco! Era semplicemente assurdo dover combattere una tale guerra solo per poter ottenere ciò che a quelle famiglie spettava di diritto!
Senza alcuna incertezza nel giudizio, dopo questa esperienza e se ancora ce n’era bisogno, potevano entrambi affermare che le assicurazioni sono davvero delle associazioni a delinquere più o meno legalizzate, pronte con la mano tesa all’ora di riscuotere il pagamento del premio, ma col pugno ben chiuso al momento di garantire la liquidazione del sinistro, abili nel gioco dello scaricabarile e nella ricerca del cavillo più insignificante, anzi significante… per loro!
Inutile puntualizzare che in tutto ciò gli avvocati delle famiglie avevano avuto il loro bel da fare, aiutati in questo dalle dure prese di posizione assunte da Fulvio e Giorgio, giunte a rasentare talvolta la querela.
Per fortuna tutto il tempo e l’inchiostro sprecati, con l’appoggio incondizionato di Giorgio e di tutta la struttura del Soccorso Alpino, non erano stati vani e i congiunti delle vittime di Rio Gere erano stati almeno adeguatamente risarciti per quanto patito.
Il cursore del mouse si sposta su una cartella il cui nome dice già tutto: “foto”. Sa che aprirla gli farà male, ma non può farne a meno, ogni tanto deve rivedere quelle immagini, quasi avesse paura di scordarsele, anche se sa benissimo che è impossibile che ciò avvenga. In quella cartella c’è Falco. Falco in volo, nel bel mezzo di un intervento. Falco in hovering durante un’esercitazione. Falco che sembra scendere in picchiata dietro una montagna. Falco in mezzo a un canalone con le pale che paiono sfiorare la roccia. Falco sulla piazzola di Pieve di Cadore, con un arcobaleno sullo sfondo, poi su quella di Belluno, sempre con un arcobaleno a far da sipario. Falco adagiato su un fianco sul greto del torrente, la coda piegata nell’acqua melmosa. Pezzi di Falco sparsi qua e là. Ma in quella cartella ci sono, soprattutto, le foto del suo equipaggio.
C’è Michele, con i suoi inconfondibili capelli rossi perennemente spettinati. Michele che fa una faccia buffa. Michele in cabina con le cuffie. Michele mentre arrampica. Poi Francesco, col suo sorriso aperto, Francesco mentre parla con alcuni ragazzi, Francesco con una birra in mano, Francesco mentre soccorre un ferito. E Stelvio, appeso quasi a testa in giù su un tetto in falesia, mentre si diverte ad una festa, concentrato mentre spiega il suo “lavoro” ad alcuni bambini, intento a giocare col suo cane. Infine, Diego, l’espressione seria, alla guida di Falco. Diego in compagnia dei colleghi. Mentre studia una cartina.
Povero Diego, additato fin da subito in modo brutale come causa del disastro. “Errore umano”, aveva sentenziato inizialmente la Procura, proponendo l’archiviazione del caso. Per fortuna le vibrate polemiche dei familiari attraverso le memorie puntuali dei legali e la levata di scudi da parte, tra gli altri, dello stesso Soccorso Alpino che aveva predisposto una serie di relazioni tese a dimostrare l’assoluta (quindi, certa) invisibilità dei cavi, avevano portato ad un supplemento di indagine.
Senza dubbio si era trattato di un errore umano, ma sicuramente non di Diego, pilota esperto e meticoloso, con oltre 3500 ore di volo alle spalle. L’errore era stato commesso da chi avrebbe dovuto diversamente normare l’annoso problema degli ostacoli al volo, facendo obbligatoriamente segnalare a dovere quei cavi e palesare la presenza di quei tralicci! Pochi giorni dopo la tragedia, erano state eseguite alcune simulazioni atte a evidenziare che, pur in condizioni ottimali di visibilità, quei fili sovrastanti il canalone non erano assolutamente percettibili in tutta la loro lunghezza e pericolosità, poiché indistinguibili dal fondo omogeneo di rocce e vegetazione. Di sicuro non si poteva incolpare della tragedia qualcuno che non poteva nemmeno più difendersi da simili accuse!
Fulvio apre il file con la relazione sull’incidente redatta dall’ingegnere incaricato dall’Agenzia Nazionale della Sicurezza al Volo di effettuare i rilievi in zona, operazione fatta il giorno dopo la tragedia. Se la rilegge tutta quella relazione, anche se la sa quasi a memoria: nomi, orari, numeri… Come sempre, quando arriva al punto dove viene specificato che dall’impatto con i cavi allo schianto sono passati solo tre secondi, non può impedirsi di immaginarlo quel momento.
Quel niente. Quell’istante maligno che li ha portati via. Per sempre.
35
C’è un po’ di sole stamattina, iniziare il turno di riposo col bel tempo è sempre un piacere. In attesa che arrivino le undici e mezzo, ora in cui deve partecipare ad una riunione a Belluno, si concede una passeggiata in giardino scortato dal suo fido Sky, un Border Collie di cinque anni.
La telefonata di Fulvio di ieri sera era stata la ciliegina sulla torta dopo una settimana di lavoro eccezionalmente noiosa. Non lo aveva nemmeno lasciato dire “pronto”, se ne era venuto fuori con una sola parola secca.
“Archiviato!”
Lui avrebbe riconosciuto quella voce tra mille.
“Si, ciao Fulvio, io sto bene e tu? Archiviato che? Cosa stai dicendo?”
“L’incidente di Falco! Archiviato, colpa di nessuno.”
“Quindi l’elicottero non è caduto a causa di un errore di Diego?”
“Esatto. Ma neanche per via dei cavi. È caduto e basta. Colpa della forza di gravità che ha il brutto vizio di attirare le cose verso terra…”
“Neanche fosse una mela!”
“Vedi tu…”
“Che cazzo!”
“Guarda, non ho parole nemmeno io e se ne ho sono tutte alquanto volgari. Spero di non averti rovinato la mattinata, ma ci tenevo a dirtelo io. Ciao Alex, vado di fretta, ci sentiamo presto.”
“Un tantino sì, me l’hai rovinata, ma ti perdono dai! Ciao vecchio!”
Era una magra consolazione, ma se non altro, alla fine al povero Diego non erano state attribuite responsabilità di sorta. Non era colpa sua, fine della discussione… Ma un elicottero, al di là della battuta, non è una mela come quelle che tra qualche mese potrà raccogliere da quest’alberello.
Accarezza i piccoli fiori bianchi di cui la pianta è piena che però non riescono a mimetizzare l’oggetto che fa capolino tra questi e le foglie. C’è una lattina di birra vuota, incastrata fra due rami a forcella, eletta a dimora da alcune vespe che entrano ed escono dall’apertura lasciata dalla linguetta.
“Ciao Michele… La tua è sempre qua…” – dice l’uomo sfiorandola con la mano, attento a non infastidire gli insetti.
La sera del 25 agosto, dopo il funerale, si erano ritrovati qui, in questo giardino in… quanti? Boh, chi se lo ricorda… tanti! Un prato, un tavolo di plastica, qualche sedia, sigarette e litri di alcool, tanti litri: birra, vino, liquori di ogni gradazione!
“Era stata comunque una gran bella festa per dissipare un poco la tensione accumulata, …” – dice a mezza voce fissando un punto indefinito. Davanti ai suoi occhi scorrono spezzoni del film di quella sera, lacrime, risate, bestemmie e abbracci. Le urla fino al cielo e contro il cielo, fin quasi all’alba, fino a quando le menti si erano ritrovate incapaci di pensieri coerenti.
Ripensa ai due sacchi condominiali di bottiglie e lattine riempiti nel pomeriggio, non appena era stato in grado di rimettersi in piedi senza che il mondo cominciasse a girare come una trottola. Questa incastrata tra i due rami, quando ha provato a levarla, ha opposto resistenza. Quindi l’ha lasciata lì, pensando che fosse un segno del destino. L’ha soprannominata “la birra di Michele”. Il tempo è trascorso, ormai fa parte dell’albero. Fa parte di una storia.
Sono passati anni. Il dolore e la rabbia non si sono dissolti, sono vivi e presenti, pulsano sottopelle, li vede nei suoi occhi allo specchio ogni mattina. Occhi da pilota di elicotteri che di interventi ne ha fatti a centinaia e che conoscevano bene quei quattro ragazzi. Aveva avuto modo di lavorare con tutti, in special modo con Diego e Michele, giacché erano tutti dipendenti della stessa azienda.
Conosceva Michele soprattutto. Perché lo aveva avuto spesso seduto di fianco. E volentieri. Lavorare con lui come tecnico era un piacere assommato ad una garanzia. Aver fatto parte del Soccorso Alpino gli aveva conferito una professionalità di livello superiore, con Michele accanto un intervento lo avrebbe fatto anche a occhi chiusi. Anche di notte e senza visori notturni! Con lui c’era l’affiatamento perfetto, dovuto anche ad un’assidua frequentazione fuori dal lavoro, dove l’amico portava allo scoperto l’altro lato della sua personalità, quello gioviale e burlone che contrastava con quello serio e professionale, metodico al limite dell’ossessivo che teneva durante le missioni di soccorso.
Michele era un amico di quelli con i quali è impensabile non poter più condividere tratti di strada. Inconcepibile ora non sentire più la sua risata sguaiata. Così se l’era tatuato sul corpo, per averlo vicino sempre. E per provare un dolore che fosse anche fisico, che potesse sopravanzare, almeno per un po’, quello dell’anima.
Anche Diego era un suo caro amico, oltre che uno stimato collega. Era contento che finalmente la sua responsabilità nell’incidente fosse stata esclusa, sarebbe stata una macchia su una carriera esemplare, una macchia comunque fasulla che qualche decina di foto avevano in ogni caso già del tutto pulito: quei cavi non si vedevano né potevano essere visti. Allora come oggi.
Alex ha un modo suo di vedere le cose, la sua voce spesso è fuori dal coro, ma è un pilota con anni di esperienza, migliaia di ore di volo sulle spalle e centinaia di interventi nelle più svariate situazioni. E lui alla storia della fatalità e del tragico destino ci crede fin là. Pur consapevole che con i “se” e con i “ma” non si va da nessuna parte e soprattutto non si possono cambiare le cose.
La realtà è che quella tragedia ha segnato un punto di svolta non solo nella vita di quanti l’hanno vissuta sulla propria pelle, ma anche nel modo di lavorare, nelle procedure da seguire, nelle regole a cui sottostare.
All’indomani dell’incidente, come logico, molte persone avevano voluto dire la propria sull’elisoccorso e sul modo in cui andava svolto il servizio. Per lo stesso fenomeno per cui durante i mondiali di calcio, gli italiani diventano tutti Commissari Tecnici, allo stesso modo, dopo Rio Gere, esperti di verricelli e ganci baricentrici, conoscitori di normative sul volo, fini disquisitori di procedure legate al decollo e atterraggio erano spuntati come funghi. Tra una risata a denti stretti e qualche imprecazione di troppo, aveva lasciato correre montagne di eresie e superficialità lette e ascoltate sui mass media. Aveva lasciato correre sino a quando un tizio, uno di quelli da cui non te lo saresti aspettato, si era permesso di dire, dalle pagine di un quotidiano, che il servizio andava svolto dall’Esercito.
A quel punto non ci aveva visto più, sentendosi costretto a rispondere per le rime riguardo quella proposta ormai superata dal tempo e dalla realtà. Lui, che il pilota militare lo aveva fatto, poteva dunque davvero parlare nel merito, avendo tutte le carte in regola per farlo.
Lui è uno di quelli che Falco lo porta a pochi centimetri dalle rocce, che se ne sta sospeso tra le nuvole con le persone agganciate magari a cento metri più sotto, alle volte anche qualche metro in più. Questo è il suo lavoro, la sua passione la sua missione. La sua vita.
Prende dalla tasca dei jeans la lattina di birra che si è portato appresso. La apre e prima di bere un sorso la leva al cielo.
“Alla nostra, sempre alla nostra amico mio! E mi raccomando, stammi sempre seduto a sinistra!”
36
Alla fine, si tratta solo di pura e semplice statistica. Numeri dati dall’interazione fra probabilità e casualità e per quanto questi numeri abbiano una loro recondita ragione, non si può fare a meno di pensare che da quel tragico giorno 22, il mese di agosto era diventato il mese nero del Soccorso Alpino bellunese. Sarebbe mai più riuscita la comunità degli uomini e delle donne di questo sodalizio a girare a fine luglio la pagina del calendario senza sentire un brivido percorrere la loro schiena?
Fulvio ricordava perfettamente entrambi gli avvenimenti, quasi fossero successi ieri.
Il 30 agosto 2011 era un martedì. Una classica giornata estiva di fine agosto, poche nuvole al mattino e pericolo di rovesci segnalato dai bollettini meteo solo per il pomeriggio. E proprio nel tardo pomeriggio al 118 era giunta una richiesta di soccorso da parte di due alpinisti tedeschi investiti durante un’ascensione da una scarica di sassi a oltre cento metri dalla vetta del Pelmo. Si trovavano sulla via Simon Rossi, una grande classica delle Dolomiti, che sale dritta sulla parete nord, dal ghiaione basale alla cima, con continue difficoltà classiche, in un ambiente molto severo.
Feriti, anche se non in modo grave, si trovavano impossibilitati a proseguire anche a causa della rottura della corda che, sotto l’effetto della scarica di sassi, si era lesionata in alcuni punti, rendendola di fatto inservibile. L’elicottero, inviato immediatamente sul posto, non si era potuto avvicinare per la scarsa visibilità dovuta alla nebbia persistente. Quindi, in seguito ad un secondo tentativo effettuato sempre da Falco, purtroppo in modo infruttuoso, una squadra di nove uomini della Stazione di San Vito di Cadore aveva deciso di partire dal rifugio Venezia sotto una pioggia battente con l’intento di salire lungo la via normale e recuperare la cordata dall’alto.
Fortunatamente i due alpinisti, pur trovandosi malamente costretti su una cornice rocciosa, non erano in una situazione di imminente pericolo. Erano riusciti ad ancorarsi alla parete in modo sicuro e anche se impauriti ed inzuppati confidavano che nottetempo o al più tardi all’alba sarebbero stati recuperati. Si trattava solo di attendere, stringere i denti e motivarsi vicendevolmente fino all’ arrivo dei soccorritori, con la speranza, vista la mancanza di indumenti di ricambio e materiali da bivacco che qualche imprevisto o una nuova pioggia torrenziale non allungasse troppo i tempi.
Quella col Capo Stazione di San Vito era stata per Fulvio l’ultima conversazione prima di crollare sul letto, sfinito dopo l’ennesima giornata passata a girare di qua e di là come una trottola. Avrebbe richiamato l’indomani non appena sveglio per sentire se c’erano novità, ma fino ad allora desiderava solo dormire come un sasso. Erano da poco passate le cinque quando il trillo del telefono di casa, dove erano state deviate le eventuali chiamate sul cellulare di servizio, lo aveva strappato da un sogno confuso. Come sapeva fin troppo bene, una telefonata, a quell’ora non poteva che essere foriera di notizie negative.
Con la voce impastata aveva biascicato un “pronto, sono qua”, forse anche un po’ brusco, ma non aveva trovato di meglio per mascherare l’agitazione che sentiva montargli addosso e che dall’altra parte della cornetta era, invece, alle stelle.
Dopo aver assunto pochi essenziali elementi su cosa sembrava essere successo, un’imprecazione era risuonata nella stanza nitida e potente, a fare da contrasto al silenzio con cui fino ad allora aveva ascoltato le tragiche notizie.
Senza nemmeno lavarsi la faccia né farsi un caffè si era frettolosamente vestito ed era partito dalla propria abitazione, avvisando Giorgio ed assumendo qualche dettaglio in più da un’altra fonte che si trovava sempre impegnata nel soccorso. Con una strana sensazione di déjà-vu a fargli compagnia lungo le strade semideserte, Fulvio aveva sentito gli stessi conati aciduli, la stessa iniziale incapacità di collegare i fatti alle persone, lo stesso odore di pneumatici lasciati sull’asfalto nelle curve più secche di due anni prima. La stessa devastante impotenza di non poter far tornare indietro le lancette di qualche ora.
Era successo che alle 5:17, i due uomini del Soccorso Alpino che erano stati calati per primi dalla cima e che si trovavano oramai a pochi metri dagli infortunati, erano stati travolti con inaudita violenza da un’enorme massa di roccia, stimata in oltre duemila metri cubi, che si era staccata all’improvviso dalla stessa parete che stavano lentamente scendendo. Le corde si erano tranciate, trascinandoli nell’abisso di aria e vuoto, in un volo di oltre settecento metri che non aveva lasciato speranze, ma solo devastanti certezze.
Fulvio si trovava con il personale del Soccorso Alpino addetto al coordinamento che per tutta la notte aveva tenuto le comunicazioni con le squadre impegnate in alto, quando era stato raggiunto da Giorgio qualche decina di minuti più tardi. I due si erano ritrovati nuovamente a dover decidere cosa fare, mentre la polvere ancora impastava le bocche e ristagnava come un sudario sulle pendici del Pelmo.
Sarà per via del soprannome col quale è universalmente conosciuto, “Caregon del Padreterno”, dovuto alla sua forma che ricorda un gigantesco trono, ma entrambi non avevano mai pensato al Pelmo come ad una montagna “cattiva”, che dal Padreterno, che avrebbe dovuto stendere su essa una mano benevola, sembrava invece essere stata abbandonata. Si stagliava davanti ai loro occhi con la sua mole imponente, anche se ferita da quella enorme virgola biancastra segno della roccia appena collassata, ma non riuscivano proprio a guardarla con lo stesso stato d’animo di prima.
Gli scalatori tedeschi non avevano potuto far altro che assistere impotenti alla tragedia. Si erano salvati poiché si trovavano a una decina di metri dalla verticale da cui era crollata l’enorme massa rocciosa. Dopo qualche ora di attesa, non appena le condizioni di sicurezza lo avevano permesso, erano stati portati in salvo con un’operazione molto rapida ed efficace.
Per recuperare i corpi dei due poveri soccorritori, invece, ci erano voluti due giorni. Le scariche avevano continuato, come cecchini infallibili, a mirare verso chiunque provasse ad avvicinarsi, vomitando sassi con estrema veemenza tutt’attorno, per centinaia di metri.
Non c’era purtroppo più nessun motivo per rischiare di aggiungere dolore al dolore e le decine di volontari del Soccorso Alpino giunti in loco avevano dovuto attendere che la montagna concedesse una tregua in un silenzio irreale che avvolgeva la valle, rotto solo dai boati della frana residua depositata qua e là sulla parete.
Ancora una volta la comunità della montagna si era stretta con la forza autentica dello sconforto più profondo, ai famigliari ed agli amici. Un lutto difficilmente comprensibile per chi non conosce e rimane incredulo dinnanzi a quella passione, a quell’amore, a quel senso del dovere che fa partire senza esitare mai, verso chi si trova in difficoltà. Un andare senza mediazioni di sorta o senza alcun calcolo. Per puro spirito di soccorso.
Anche stavolta, poco tempo dopo, le Medaglie d’Oro al Valore Civile erano state conferite a chi non avrebbe più potuto abbracciare i propri cari. Il calore delle tantissime persone, a quei cari vicine, aveva saputo donare, solo per qualche istante, un timido sorriso.
Il 10 agosto 2012, invece, cadeva di venerdì.
Un giorno caldo, assolato, la giornata ideale per andare ad arrampicare. Niente di particolarmente impegnativo, una via relativamente semplice, la “Dino e Maria” sul monte Cridola, appena sopra Domegge di Cadore, sulle Dolomiti che fanno da confine tra Veneto e Friuli. Una zona suggestiva, dove le rocce sembrano appoggiate sugli aghi dei pini verdi e gli unici rumori solo quelli del vento e degli animali.
L’uscita doveva servire più che altro per affinare le tecniche del più giovane dei tre amici, che aspirava ad entrare nel Soccorso Alpino e gli altri due, che già ne facevano parte, erano ben lieti di dargli una mano per coronare questo sogno. Una via dove poter approfondire aspetti tecnici, manovre di corda ed esperienze, trasferendole a chi aveva così la possibilità di crescere alpinisticamente e umanamente.
Nel pomeriggio, la compagna di uno dei tre, preoccupata per il ritardo e in assenza di una qualsivoglia risposta telefonica da due dei numeri in suo possesso, aveva recuperato il numero di Fulvio e lo aveva prontamente contattato per avere quantomeno un consiglio, temendo che potesse essere successo qualcosa.
Il Delegato, dopo due telefonate mirate, aveva allertato il 118 e la competente Stazione del Soccorso Alpino del Centro Cadore affinché venisse effettuata una ricognizione in zona, in quanto c’erano alcuni oggettivi elementi che lasciavano supporre che si fosse verificato un incidente.
Non c’era stato bisogno della terza telefonata per capire cosa fosse successo, il finale di questa storia infelice, quanto drammatica lo aveva sentito direttamente dalla voce di Alex alla radio mentre pilotava l’elicottero in ricognizione: “Avvistati tutti e tre alla base della parete”.
Quelle poche, laconiche, parole erano state sufficienti per raggelargli il sangue, per farlo accasciare sulla sedia come un sacco vuoto. Non era rimasto altro da fare che avvisare la Stazione di appartenenza la quale ancora sperava che quei suoi tre figli fossero solo in ritardo, oppure persi tra qualche pino mugo.
Una sosta, composta da un chiodo e da un enorme clessidra, era collassata dopo che la stessa era stata utilizzata chissà quante altre volte per altrettante salite, e aveva trascinato i tre ragazzi nel vuoto senza alcun preavviso, senza alcun segno.
Un volo pauroso di oltre cinquanta metri. La morte era arrivata immediata, senza far soffrire, ma lacerando i cuori di chi era rimasto in attesa.
Il mondo del Soccorso Alpino, ma ancor prima madri e padri, compagne ed amici, vengono improvvisamente scaraventati nel buio più fitto, nel dolore che comprime lo stomaco chiudendolo in una morsa, togliendo il respiro, devastando per sempre le esistenze.
Tutte quelle vittime nel giro di pochi anni, gli sembrano, anzi, sembrano a tutti, un tributo esagerato. Sino all’agosto 2009 non era mai successo nulla di simile in tutta la lunga ed articolata storia del Soccorso Alpino. Mai era successa una simile concatenazione di eventi drammatici, anzi si ricorda un solo decesso in attività di soccorso reale nella zona di Auronzo, agli inizi degli anni ’70.
Dovrebbe esserci un Santo speciale a proteggere gli uomini del Soccorso Alpino e, in qualche modo, a vegliare sulle loro famiglie. Invece pareva proprio che nemmeno i quattro amici di Falco riuscissero ad intercedere con Dio affinché avesse, nei confronti di chi frequenta la montagna, in modo particolare per chi la frequenta in aiuto ad altri, un occhio di riguardo.
A meno che… a meno che lassù o dovunque si trovi quel posto dove le persone vanno dopo essere state sulla terra, non ci siano montagne ancora più grandiose e incantevoli e che, anzi, siano stati proprio Diego, Michele, Francesco e Stelvio a volerli con loro.
Doveva essere certamente così, a Fulvio piace pensarlo. Ed è con questa certezza che toglie il calendario dalla parete e dopo averlo riposto sul tavolo, con un movimento deciso, strappa la pagina del mese di agosto.
37
Ha lo stesso nome del padre e anche gli stessi capelli rossi. Si guarda intorno spaesato, senza lasciare la mano della donna che cela lo sguardo dietro grandi occhiali da sole. La mole del Cristallo li sovrasta con tutta la sua tragica bellezza.
Fulvio li osserva da lontano per qualche minuto, mentre rifiata dopo la salita. Non si aspettava di trovarli quassù, Elena non era mai intervenuta a nessuna commemorazione. Li guarda e pensa a quanto sia ingiusto che quel bambino non abbia potuto conoscere suo padre. Ed è ingiusto soprattutto che Michele non abbia potuto abbracciare quel figlio tanto desiderato, che non abbia nemmeno avuto il tempo di ricevere la bella notizia del suo concepimento.
Prima di quel tragico 22 agosto, lui e l’amico non si erano visti per un po’ di tempo perché Michele era di lavoro a Padova. Non si erano sentiti nemmeno per telefono in quel periodo, qualche messaggio e nulla più, sempre di corsa, sempre troppi impegni! Quindi lui, della storia dell’adozione, non sapeva nulla. Era stata Elena a parlargliene e a raccontargli dello scherzo che aveva architettato.
Lo aveva fatto mesi dopo, quando oramai la pancia non si poteva più nascondere. Quando era stata sicura che il dolore non avrebbe ucciso né lei né la creatura che portava in grembo. Gli aveva descritto le notti col cane tra di loro, il finto litigio, gli aveva raccontato come si era immaginata il ritorno a casa del marito, il suo viso stupito, la sua gioia. Poi la telefonata sul cellulare mentre in un negozio stava acquistando un paio di calzini da neonato. Il buio. Il vuoto.
Teo era rimasto a farle compagnia nel letto ancora per parecchie settimane mentre lei piangeva dandosi della stupida per aver tenuto distante Michele quegli ultimi giorni, quando poteva stringerlo, abbracciarlo e amarlo. Ripensare a ciò le toglieva il respiro, le provocava dolore fisico, una stretta al cuore. Ancora adesso. Fulvio lo sapeva, anche se lei non ne aveva parlato più.
Va loro incontro, prima che scendano verso il ristorante e li perda di vista. Il bambino è il primo a notare la sua presenza e lo saluta eccitato.
“Ciao Michele! Sei stato bravissimo ad arrivare fino a qui! E a portare addirittura la mamma!” Sebbene la strada non sia poi così lunga, non è certo delle più agevoli, specie nell’ultimo tratto e soprattutto per un bambino di nemmeno sei anni. Il piccolo annuisce con due secchi colpi di testa. La madre sorride e porge la mano a Fulvio che la afferra e attira la donna a sé dandole due baci sulle guance.
“Ciao, Elena, sono contento di vederti… capita così di rado, neanche abitassimo a chilometri di distanza!!”
Lei si toglie gli occhiali scuri, lo guarda dritto negli occhi.
“Lo sai meglio di me che è giusto così. Credo sia un modo inconscio per non continuare a farci del male. L’argomento sarebbe sempre lui…”
“Si, immagino tu abbia ragione. Non passa giorno che non pensi a Michele, il dolore è lo stesso, inalterato e ugualmente pesante. La rabbia, invece, quella è sempre più grande. Lo vedi? Non è cambiato niente!” Fulvio alza un dito al cielo, ad indicare i cavi che attraversano ancora la valle senza nessun tipo di segnalazione.
“Fulvio, smettila di dannarti l’anima! Adesso una legge c’è, anche grazie a te… Ti sei battuto come un leone per questa causa, ci hai messo del tuo, è stata la tua crociata. Adesso, datti pace!”
“Si, è vero, le legge c’è, ma gli enti e le istituzioni che dovrebbero verificare che venga rispettata cosa fanno? E i lavori della Commissione? Io non posso accettare l’idea che potrebbe succedere di nuovo… Che altre persone, altri ragazzi potrebbero morire per le lungaggini degli organi preposti a fare qualcosa!”
Elena gli appoggia una mano sulla spalla in segno di comprensione. Assieme, si avvicinano al capitello eretto sotto una roccia, vicino al punto dove Falco ha smesso per sempre di volare. Dentro è appesa una foto che ritrae l’elicottero tra le nuvole, con due brevi righe per ricordare l’accaduto, una frase di Sant’Agostino e il nome dei quattro uomini periti nell’incidente.
Persone sconosciute hanno lasciato segni del loro affetto: poesie, lettere, pupazzetti e candele. Tra le maglie della grata, semplici fiori raccolti tra quelle rocce. Gli escursionisti passano più in basso, lungo il tracciato della pista da sci, probabilmente ignari che quel piccolo ruscello che devono superare con un balzo, anni prima si è tramutato in un fiume di fango, inconsapevoli della tragedia che si è consumata su quei sassi.
Non ci sono altre persone, oltre a loro tre. Fulvio, mentre saliva, ha incontrato un uomo del Soccorso Alpino e una ragazza che accompagnava una donna piuttosto anziana che lo hanno salutato con un cenno del capo. Forse qualcuno verrà quassù dopo la Messa. I primi anni veniva celebrata proprio qui, questa volta era stato deciso di spostare la cerimonia giù vicino al ristorante, meno problemi organizzativi e logistici. Alla fine, però, tutti avevano convenuto che il luogo dove eventualmente ricordare Diego, Francesco, Michele e Stelvio non poteva essere che quello posto in alto, quello esatto dello schianto a terra di Falco.
Elena si accovaccia di fianco al figlio, gli indica la foto, parla a bassa voce. Il bambino non è mai stato qui. Anzi, c’è stato, ma non se lo può ricordare. Era piccolissimo, in una giornata di sole quasi primaverile lei se lo era portato fin quassù in braccio, imbacuccato come se dovesse andare al Polo Nord. Si era seduta vicino al piccolo capitello ed era rimasta lì a fissare il vuoto, con le lacrime che le rigavano il viso, ad aspettare, ma senza sapere cosa stesse in realtà aspettando.
Non era successo niente. Nessun elicottero era arrivato a riportarle suo marito, nessuna pietra si era mossa, nessun rapace aveva lanciato il suo grido tra le cime. Così aveva capito. Aveva capito che non doveva cercare Michele in nessun posto, perché lui era lì, tra le sue braccia, in quell’altro Michele che dormiva ignaro e beato.
Il bambino non è mai stato qui, ma sa che è in questo luogo che il suo papà è caduto con l’elicottero ed è volato in cielo con gli angioletti.
“Era lì, vero mamma?” – dice indicando con un dito il luogo esatto dove Falco stava riverso su un fianco. Lei gli accarezza la testa. “Si tesoro, proprio lì! Abbiamo guardato le foto, tempo fa” – dice a Fulvio come a volersi giustificare – “Quelle del libro che avevi fatto stampare per il primo anniversario. Da allora lo sfoglia tutte le sere, prima di dormire, dopo la favola della buonanotte. Non so se sia un bene o un male, ma mi pare tranquillo… È l’unico modo che ho per fargli conoscere suo padre: le foto e le parole, le mie e quelle di chi lo ha conosciuto”. La voce le si incrina.
Quanto ti può mancare una persona che non hai mai conosciuto? Quante volte nella vita ti chiederai come sarebbe andata se ci fosse stato? Anche a te, piccolo Michele, tuo padre compare nei sogni come a me? Il rumore di un elicottero in lontananza riscuote Fulvio dai suoi tristi pensieri.
“E’ Alex! È Alex!” – grida il bambino eccitato indicando il puntino giallo all’orizzonte. Si, è davvero Alex, è lui di turno questo pomeriggio. Vola veloce in direzione della Croda Rossa per un intervento, Fulvio lo sa perché ha ricevuto un messaggio sul telefono, ma più tardi tornerà con Falco per rendere omaggio a Falco con un sorvolo.
“Alex è mio amico, sai?”
“Certo che lo so! Me lo ha detto lui!”
Fulvio sorride e con la mano scompiglia i capelli rossi del bambino, come faceva con suo padre, il quale asseriva di aver smesso di pettinarsi proprio per quel motivo.
“È inutile” – diceva ridendo Michele – “Che perdo un quarto d’ora davanti allo specchio se poi tu in cinque secondi mandi a puttane tutto il mio lavoro! Lo fai solo per invidia! Poi tanto io sono sempre lassù in alto, figurati te se c’è chi ha da ridire sulla mia capigliatura!”
Sempre lassù in alto… Alza la testa a guardare il Cristallo baciato dal sole, ma è solo un modo per impedire a una lacrima di scendere trascinandosi appresso un mare di ricordi.
EPILOGO
Al rifugio gli occhi sono tutti puntati sulla parete. “Pensa se non ci fosse stato l’elicottero… quei poveretti avrebbero dovuto stare lì appesi per chissà quanto!”
La ragazza cinge la vita di quello che probabilmente è il suo fidanzato mentre osserva l’oggetto che, sino a poco prima, era solo una piccola e quasi indistinta macchia gialla. L’elicottero atterra dopo aver depositato con delicatezza il suo carico umano sul prato cosparso di pietre bianche e radi fiori. La targa, I-SUEM, spicca sulla coda gialla dell’EC 145T2, vicino al nome scritto in rosso: Falco.
“E quello appeso lì sotto… che coraggio! Quegli uomini sono davvero degli angeli!”
Angeli in tuta rossa. Membri del Soccorso Alpino che ormai da sessant’anni sono diventati una presenza fissa di queste valli. Eredi di quelle guide alpine, di quei cacciatori e di quei valligiani pratici di montagna e profondi conoscitori del territorio che ancora agli inizi del ‘900 diedero vita alle prime postazioni di salvataggio.
In provincia di Belluno, gli angeli sono quasi cinquecento, suddivisi in diciannove Stazioni e formano una grande famiglia della quale, chi vi appartiene, ne va fiero.
Entrare a farne parte non è poi così semplice, ma nemmeno un impegno così trascendentale come taluni vanno dicendo. È necessario conoscere bene la montagna in ogni suo aspetto, saper arrampicare in modo discreto, sciare con destrezza fuori pista, muoversi in ambiente impervio con sicurezza e velocità. Se accedere ai ruoli del Soccorso Alpino – come si diceva – non è in realtà così complesso, rimanerci, padroneggiando materiali, tecniche e attrezzature, risulta davvero impegnativo: continui aggiornamenti, corsi ed esercitazioni, oltre all’attività di soccorso reale, diventano allora la garanzia da dare alla propria Stazione di appartenenza.
Il Soccorso Alpino è composto da volontari, persone che mettono il proprio tempo a disposizione di chi si trova in pericolo o in difficoltà, da uomini e donne che amano la montagna al punto tale di rischiare la propria vita affinché altri possano frequentarla, conoscerla ed amarla allo stesso modo. Poi ci sono dei tecnici che hanno raggiunto specializzazioni ulteriori, di estrema complessità, che percepiscono delle indennità. Gli stessi, al di fuori delle turnazioni, tornano ad essere del tutto volontari quando chiamati ad operare nella propria Stazione o in sostegno di quella contermine.
È stata proprio questa associazione, ancora nei primi anni sessanta, a capire che l’elicottero sarebbe stato il mezzo decisivo per permettere un intervento tempestivo, il mezzo adatto alle emergenze in montagna per abbattere i così detti esiti invalidanti e gli indici di mortalità. Per diverse motivazioni, ci è voluto poi molto tempo prima che il servizio di elisoccorso si sviluppasse così come oggi tutti lo conosciamo.
Il servizio, infatti, prende vita, tra i primi in Italia, dopo varie prove iniziate ancora negli anni ottanta, il 1° giugno dell’1988, dapprima in modo sperimentale e poi, non senza difficoltà e notevoli battaglie, in modo permanente.
Bisogna però attendere il 1999 perché il rapporto tra Soccorso Alpino e Suem 118 venga messo nero su bianco e solo dopo qualche pesante attrito tra alcune Stazioni da una parte e il 118 e la Direzione del Soccorso Alpino, dall’altra, vede la luce qualche mese più avanti il primo protocollo che disciplina con estrema puntualità la modalità di effettuazione degli interventi di soccorso.
L’utilizzo dell’elicottero, negli anni, ha permesso di salvare tante vite che altrimenti, con i vecchi metodi di soccorso, pur validi, ma dai lunghi tempi di esecuzione, sarebbero andate perdute. Ma è solo in quest’ultimo periodo che tale servizio sembra essere diventato finalmente una realtà imprescindibile e non solo terreno di aspre lotte per vedere riconosciuta, almeno sotto il punto di vista sanitario, la specificità di questo territorio.
A questo, probabilmente, ha contribuito anche la tragedia di Falco: rendere consapevoli i bellunesi che il loro patrimonio non sta solo nelle Dolomiti, ma anche in quegli uomini che su di esse vegliano e le cui gesta, forse poco note, dovrebbero riempire di orgoglio e di ammirazione.
La nuda cronaca dell’incidente
(Relazione ufficiale)
Alle ore 14.19 ca. del 22 agosto 2009 perveniva alla Centrale Operativa del Suem 118 di Pieve di Cadore (Belluno) una chiamata da parte dei Carabinieri che notiziavano il Suem della caduta di una frana che avrebbe coinvolto delle persone in località Rio Gere/Misurina (Auronzo/Misurina).
L’operatrice del Suem 118 con il consueto, metodico filtro, nella necessità di ottenere maggiori dettagli geografici, appurava che non si trattava di Misurina, ma della località notoriamente riconosciuta e denominata come Rio Gere (Passo Tre Croci – Cortina d’Ampezzo) situata a quota mt. 1.698.
Alle 14.23 veniva, quindi, notificato all’equipaggio dell’elicottero del SUEM 118 di Pieve di Cadore (A 109 GRAND – I REMS), impegnato in quel momento nell’effettuazione in una missione SAR sul Passo Giau a favore di una escursionista marchigiana con un trauma ad un arto, che si sarebbe resa necessaria una ricognizione/perlustrazione sulla frana in questione, una volta ospedalizzata la paziente.
La decisione veniva ovviamente assunta a fronte delle informazioni pervenute e in base alle prerogative della Centrale Operativa del SUEM 118, ovvero ai sensi dei vigenti protocolli operativi e specifiche competenze di legge ascritte al Servizio Sanitario Nazionale e al Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico.
In attesa che l’intervento di soccorso sul Passo Giau fosse portato a termine, la Centrale Operativa del SUEM 118, per tramite del Tecnico di Centrale del CNSAS notiziava di quanto accaduto il Capo Stazione CNSAS di Cortina d’Ampezzo ed allertava, alle ore 14.28, la Stazione di Cortina d’Ampezzo perché la stessa si portasse sul posto ed iniziasse ad effettuare le ricerche via terra di eventuali soggetti travolti o in difficoltà, vista anche la particolare frequentazione turistica della zona in questione.
L’elicottero atterrava poco dopo, alle 14.25 ca. alla piazzola del Codivilla Putti (Cortina d’Ampezzo) e, fatta velocemente ospedalizzare la paziente per mezzo di un’ambulanza, decollava alle ore 14.32 ca. per la località di Rio Gere.
Giunto nell’area di riferimento alle “ore 14.36 secondo le comunicazioni radio” (1), l’elicottero iniziava immediatamente le operazioni di perlustrazione/ricognizione per tramite del proprio equipaggio formato da Stefano Da Forno Tecnico di soccorso alpino e Tecnico di elisoccorso; Fabrizio Spaziani Medico anestesista del SUEM 118 e Tecnico di Soccorso Alpino; Luca Pislor Infermiere professionale del SUEM 118; Marco Zago Tecnico aeronautico della ditta Inaer Helicopter Italia S.p.a. e Tecnico di soccorso alpino e Dario De Felip Pilota della ditta Inaer Helicopter Italia S.p.a..
La ricognizione veniva, infatti, immediatamente effettuata, anche per evitare di dover fare un atterraggio che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, stante la possibilità che vi fosse stata qualche persona travolta dalla frana e/o dall’acqua e per questa ragione bisognosa di un intervento assolutamente rapido.
La prima ricognizione sul luogo iniziava, dunque, alle 14.35 ca. (le foto effettuate dal Tecnico di elisoccorso con la fotocamera Olympus modello 850 SW di proprietà del CNSAS dimostrano, attraverso la documentazione fotografica con rispettivo ordine cronologico, che la prima foto è stata fatta a partire dalle ore 14.37 ca. in una posizione però piuttosto avanzata, mentre le foto scattate dal Medico iniziano con la rispettiva sequenza cronologica alle ore 14.35 ca.).
La ricognizione durava sino alle ore 14.44 ca., orario in cui viene scattata l’ultima foto ed orario in cui presumibilmente l’elicottero ci accingeva ad effettuare le manovre di atterraggio a Rio Gere, in quanto la foto è stata effettuata pressoché al livello del piano stradale.
Al riguardo, possiamo affermare con sufficiente certezza che lo stesso sia atterrato alle 14.44/45 ca. in località Rio Gere con l’ausilio a terra di Nicola Bellodis (Operatore di Soccorso Alpino della Stazione CNSAS di Cortina d’Ampezzo) e di Ruben Moroder (Tecnico aeronautico della ditta Air Service Center) che casualmente si trova a passare per il Passo Tre Croci.
Alle 14.46 ca. Fabrizio Spaziani chiamava la Centrale Operativa del SUEM 118 dando informazioni sull’esito della prima ricognizione ed asserendo che sarebbe stata effettuata una successiva ricognizione, considerato l’esito incerto della prima, principalmente dovuto alla particolare tipologia dell’evento e, forse, dalla necessità di scansionare anche parti del terreno poste più a monte del punto più alto raggiunto nel corso della precedente perlustrazione.
Nel frattempo veniva fatto scendere l’Infermiere professionale, Luca Pislor, al fine di monitorare un paziente cardiopatico che si trovava nei pressi di un camper (nda: Fabrizio Spaziani asseriva nella stessa telefonata che lo stesso non aveva particolari problemi clinico-sanitari), mentre il resto dell’equipaggio stazionava nei pressi dell’elicottero, raccogliendo indicazioni/testimonianze su quanto occorso (nda: la frana) e circa la non remota possibilità che qualche escursionista potesse in qualche modo essere stato coinvolto a monte della stessa.
L’elicottero non effettuava, dunque, nessun scarico del materiale medico-sanitario e dell’attrezzatura CNSAS, condizione che fa supporre la volontà di effettuare una ricognizione veloce e definitiva per poi rientrare alla base di Pieve di Cadore una volta imbarcato l’Infermiere.
Alle ore 14.58/59 ca. l’elicottero lasciava Rio Gere per quella che sarebbe stata l’ultima ricognizione.
Alle 15.07 ca. un’escursionista che si trovava in zona telefonava a SUEM 118 dichiarando di aver sentito sino a poco prima il rumore di un elicottero (nda: la chiamata dura 1.53’) e poi, a seguito di un tonfo, di non essere più stato in grado di sentire alcun rumore.
Questo è l’orario ufficiale che compare nei rapporti SUEM 118/CNSAS quale orario del sinistro, anche se va ricordato che l’incidente è occorso, come di seguito indicato, qualche minuto prima.
Infatti, secondo la documentazione fotografica rilevata sulla macchina digitale del SUEM 118, con l’ultima foto effettuata da Fabrizio Spaziani (nda: è stato verificato con attenzione il cronologico e la taratura della stessa), si rileva l’orario delle 15.04.46 ca. E’, quindi, piuttosto attendibile, anche alla luce della rappresentazione fotografica analizzata dal CNSAS e che indica con chiarezza il posizionamento di un larice rispetto ai cavi dell’elettrodotto, che l’impatto con gli stessi sia avvenuto qualche decimo di secondo dopo, posta anche la velocità di traslazione ridotta con la quale veniva fatta la ricognizione allo scopo di osservare con scrupolo il terreno sottostante.
A questo punto l’elicottero con il denominativo “Falco” veniva chiamato via radio più volte dalla C.O. del SUEM 118 senza ricevere risposta alcuna, parimenti lo stesso veniva fatto dal personale CNSAS della Stazione di Cortina d’Ampezzo, che si trovava a Rio Gere, con il medesimo esito.
Il Delegato del CNSAS, Fabio Bristot, che si trovava per motivi diversi nel magazzino della Stazione CNSAS di Belluno, comprendendo la situazione ed ancor prima che venissero sospese le chiamate a Falco, congiuntamente ad un Operatore del CNSAS di Belluno (nda: Matteo Fontana), sentite le reiterate comunicazioni radio prive di risposta, partiva immediatamente per Cortina, avvisando il Vice Delegato, Gianni Mezzomo ed il Coordinatore dei Tecnici di elisoccorso, Sergio Albanello, di quanto si andava profilando. Lungo il percorso il Delegato transitava per la Centrale Operativa di Pieve di Cadore dove recuperava il Direttore del SUEM 118, Dott. Angelo Costola, per effettuare assieme il viaggio verso Cortina d’Ampezzo.
L’elicottero veniva successivamente chiamato via radio ancora per qualche decina di secondi, quindi, la Centrale Operativa del SUEM 118 di Pieve di Cadore provava ad effettuare anche dei contatti via cavo con i membri dell’equipaggio con esito negativo. A questo punto il Tecnico di Centrale del CNSAS presente al SUEM 118 indirizzava le squadre del CNSAS di Cortina, già impegnate via terra, sulle zone oggetto della perlustrazione aerea, attività che peraltro era già in corso di effettuazione.
Andava chiaramente delineandosi la tesi di un possibile caduta dell’elicottero e, dopo qualche tempo di comprensibile, quanto drammatico imbarazzo, oltre che di verifica di quanto forse era tragicamente occorso, la Centrale Operativa del SUEM 118 allertava alle 15.14 il SUEM 118 di Bolzano per l’immediato invio di un elicottero sul luogo dell’evento. L’elicottero denominato “Pelikan 2” (EC 145) decollava alle 15.22 dalla base di Bressanone (BZ) ed arrivava sul luogo dell’evento alle 15.35 ca. Qui imbarcava Paolo Bellodis, Guida Alpina e Tecnico di elisoccorso del CNSAS, per effettuare una ricognizione puntuale sul luogo dell’evento.
Poi era la volta dell’elicottero del SUEM di Treviso, allertato alle 15.20 e decollato alle 15.25 dalla piazzola dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso che atterrava sul posto alle 15.42 a disposizione del CNSAS.
Precedentemente, nei minuti che seguono le 15.05/15.08, quanti si trovavano sul piazzale di Rio Gere, ovvero Luca Pislor e Ruben Moroder ed altri si rendevano conto dell’avvenuto ed effettuavano invano diverse chiamate radio sia sulla frequenza del SUEM 118 sia su quella del CNSAS, tutte con esito negativo.
Qualche istante dopo, Luca Pislor e Ruben Moroder, salivano in macchina assieme a Lorenzo Gaspari (nda: ex componente del CNSAS) e raggiungevano la zona posta a valle del supposto luogo dell’evento, da dove proseguivano a piedi, pervenendo ben presto ad individuare la sagoma dell’elicottero caduto a quota mt. 1.945 ca. in coordinate 46° 33’ 44,0” N – 12° 11’ 35,4” E, riverso sul fianco sinistro con la prua posta a 238° (1).
Trascorrevano pochi attimi per rendersi oggettivamente conto (nda: Moroder controllava il polso carotideo di Da Forno, De Filip e Spaziani, mentre non riusciva a fare lo stesso per Zago risultando il suo corpo posizionato sotto quello del pilota) che tutti i membri dell’equipaggio erano deceduti.
Nel frattempo, le squadre del CNSAS di Cortina con a capo Roberto Santuz, Vice Capo Stazione, convergevano numerose sul luogo ove era precipitato il mezzo, congiuntamente al Medico di Stazione, Fabio Bellotto, che a sua volta certificava la morte dei quattro. A seguire, si portava nei pressi anche personale SAGF (Soccorso Alpino Guardia di Finanza) e personale dei VVF, prima impegnato al monitoraggio della frana.
Nello stesso periodo di tempo, dalla Centrale Operativa del SUEM 118, veniva anche allertato ed inviato sul posto il Centro Mobile di Coordinamento del CNSAS con proprio personale, nella supposta necessità che le operazioni di recupero potessero essere complesse ed impegnare il personale CNSAS a lungo (nda: sino alle 15.26 non si avevano notizie né informazioni di sorta).
Successivamente, una volta che i Carabinieri nella persona del Cap. Filippo Vanni, sopraggiunto sul posto, avevano dato l’assenso alla rimozione delle salme previa autorizzazione della Procura della Repubblica di Belluno, si iniziavano le operazioni di estrazione dei corpi che risultavano ancora collocati all’interno del relitto dell’elicottero.
Gli stessi venivano recuperati non senza difficoltà a causa del loro posizionamento e alla presenza di un coacervo di lamiere e componenti distrutti dell’aeromobile.
Infatti, la posizione stessa dell’elicottero collocato sul fianco e la sua precarietà sul terreno, oltre al comprensibile, marcato disagio degli Operatori del CNSAS, rendeva difficoltoso il recupero, tenuto anche conto dello stato delle salme e del fatto che era stato necessario tagliare cinture di sicurezza al Pilota e al Tecnico e, parimenti, tagliare la longe al Medico e al Tecnico di elisoccorso.
Una volta fuori dell’abitacolo, le salme venivano riposte nei sacchi salma e, quindi, elitrasportate dall’elicottero del SUEM di Bolzano con n. 2 rotazioni successive alla piazzola del Codivilla Putti per essere poi traslate a cura del personale CNSAS nel garage della Stazione di Cortina, come da indicazioni fornite dal Capo Stazione Mauro Da Poz.
Presso la struttura del CNSAS le salme venivano ricomposte e messe a disposizione del medico del SUEM 118 di Bolzano e delle Autorità competenti intervenute sul luogo. Il Primario del SUEM 118, dott. Angelo Costola, e il Delegato del CNSAS Fabio Bristot, provvedevano poi al riconoscimento delle salme e, quindi, il Medico provvedeva, a partire dalle 17.12 ca., ad accertarne le cause del decesso, stilando allo scopo idonea documentazione.
Da allora Enti ed Autorità, tra cui il Prefetto ed il Comandante Provinciale dei Carabinieri, oltre che al Medico legale preposto agi accertamenti del caso, si sono via via avvicendati per gli iter previsti e per quanto disposto in casi similari. Quindi, arrivano sul luogo dell’evento anche Autorità politiche tra cui il Sindaco di Cortina d’Ampezzo, Andrea Franceschi, il Presidente della Provincia di Belluno, Gianpaolo Bottacin e i Consiglieri Regionali Dario Bond e Guido Trento.
Contestualmente, sul luogo della tragedia, il personale CNSAS, vista la precaria instabilità del mezzo e la possibilità che lo stesso potesse ribaltarsi o, peggio, essere trascinato a valle a causa di possibili ulteriori rovesci in zona, lo ancoravano con cavi metallici alla parete rocciosa antistante.
Alle 21.35 ca. il personale CNSAS intervenuto sul luogo dell’evento e, successivamente, nei pressi del magazzino della Stazione CNSAS di Cortina chiudeva ufficialmente l’intervento.
Lasciava il luogo anche il Delegato CNSAS che raggiungeva il Vice Delegato CNSAS, presso la Centrale Operativa del SUEM 118 di Pieve di Cadore.
Le cause dell’incidente
In relazione alle cause che hanno provocato la caduta dell’elicottero va ricordato in premessa che la tesi del CNSAS è sostenuta da alcuni elementi probanti e di per sé evidenti.
Le cause sono, infatti, ascrivibili all’impatto avvenuto tra il rotore principale dell’elicottero ed i cavi dell’elettrodotto a media tensione presente nella zona delle operazioni (nda: proprietà della Società Faloria Cortina d’Ampezzo).
L’urto con i cavi, ancorché la velocità di traslazione orizzontale dell’elicottero fosse bassa, ma quella ascensionale alta (1), è stato oltremodo impattante, tanto che le pale del rotore principale sono state squarciate (nda: una pala è addirittura finita sulla collinetta contermine a svariate decine di metri dal punto d’impatto) e tutto l’impianto di trasmissione dell’elicottero è stato strappato, provocando un’immediata e repentina perdita di portanza del mezzo, sino a farlo precipitare da un’altezza di mt. 51 ca. con una velocità d’impatto sul terreno di ca. 100 km/h(1).
All’impatto (…) non scaturiva alcun rotolamento (strisciamento) in grado di dissipare l’energia cineticaacquisita. Tali elementi, unitamente alla tipologia del fondo roccios,o hanno determinato il raggiungimento della decelerazione massima possibile al momento dell’impatto (1), ovvero l’impatto peggiore per gli occupanti.
La causa prima è, invece, dovuta al fatto che i fili dell’elettrodotto in questione, per la quota dell’elicottero e per la posizione al momento dell’impatto non fossero nel modo più assoluto visibili né al pilota né al tecnico aereonautico né agli altri membri dell’equipaggio. Precisamente, né i cavi, né i relativi tralicci dell’elettrodotto erano muniti di segnali visivi che ne evidenziassero la presenza; in particolare, i tralicci risultavano di colore grigio scuro, mentre sui cavi (…) non veniva rilevata alcuna sfera segnaletica (1).
Lo stesso L. Pislor, Infermiere professionale del SUEM 118 sbarcato prima della fatale seconda ricognizione, aveva confermato che già nel corso della prima ricognizione i cavi non erano certamente stati individuati dall’equipaggio, tanto che la linea elettrica interessata dall’incidente, nelle sue componenti, non era segnalata sulle mappe elettroniche dei sistemi di navigazione dell’elicottero (1).
A riprova di questa tesi va segnalata l’importante ricognizione conoscitiva effettuata dal Delegato, dal Vice Delegato CNSAS, Gianni Mezzomo e dal Vice Capo Stazione CNSAS di Cortina in data 8 settembre 2009 (nda: con giornata di rara limpidezza e nitidezza con condizioni di ceyling > 1.000 mt) per mezzo di un elicottero (nda: B3 dell’Air Service), dal quale è stato possibile appurare come nel corso di tutta la così detta seconda ricognizione effettuata da “Falco” il 22 agosto 2009 i fili non siano mai stati visibili. Nella suddetta ricognizione sono state simulate quote e posizioni in aderenza alla documentazione fotografica realizzata da S. Da Forno e F. Spaziani durante la seconda ricognizione e ciò nel tentativo di ricostruire i fatti con assoluta fedeltà.
Dalle varie prove effettuate e documentate emerge in modo incontrovertibile che, a prescindere dalle quote e posizioni raggiunte dall’elicottero in tutta la fase di avvicinamento (traslazione ed ascensione) a quello che sarebbe stato il luogo del tragico impatto, i fili non fossero assolutamente visibili, ovvero sarebbero stati identificabili solo con idonee segnalazioni realizzate sulla fune di guardia e/o con la segnalazione dei tralicci.
NOTA
In relazione agli orari riprodotti nel testo va specificato che gli stessi sono stati individuati attraverso la lettura del cronologico delle macchine fotografiche digitali del CNSAS utilizzata da Stefano Da Forno, del SUEM utilizzata prima da Luca Pislor e da Fabrizio Spaziani poi e da Paolo Bellodis, già Capo Stazione CNSAS di Cortina (nda: lo stesso ha scattato alcuni fotogrammi dell’elicottero atterrato a seguito della prima ricognizione).
Possono comunque esserci degli errori minimi sugli orari che, in ogni caso, non inficiano in alcun modo la presente cronaca che è stata estrapolata dal rapporto di intervento ufficiale del CNSAS per l’attività di cui alla Legge n. 74/01 e successive modificazioni, quindi limitatamente alle funzioni e alle competenze del CNSAS così come stabilite dal vigente ordinamento.
Oltre a ciò si ricorda che è stata utilizzata, là dove possibile o utile per far comprendere meglio le varie fasi degli eventi, la relazione dell’Agenzia Nazionale della Sicurezza al Volo (ANSV) a firma dell’ing. Alessandro Cometa, tecnico incaricato di effettuare i rilievi in zona, operazioni di indagine avvenute già il giorno 23 agosto 2009.
Tutti i corsivi che sono seguiti si riferiscono, infatti, alla suddetta relazione.
RINGRAZIAMENTO 1
Parlare del 22 agosto 2009, per chi lo ha vissuto direttamente con la pancia ed il cuore assieme, l’incredulità prima e la tragica verità poi, risulta ancora oggi molto difficile.
Per alcuni così difficile da risultare pressoché impossibile.
Nello scrivere questo racconto ho cercato di riportare i fatti nel modo più coerente possibile sulla scorta degli atti e delle analisi ufficiali, delle relazioni e delle fonti iconografiche prodotte nel tempo.
Ho avuto modo di venire a contatto con molte persone e in ognuna di loro ho trovato lo stesso filo conduttore, lo stesso dolore di fondo, lo stesso sconcerto per una tragedia inspiegabile e per la perdita di persone che erano, prima di tutto, amici.
Ringrazio innanzitutto Fabio Bristot “Rufus”, consapevole che senza il suo aiuto, senza le preziose informazioni fornitemi su tutti gli aspetti tecnici e non, senza i suoi incoraggiamenti e sollecitazioni, questo libro non sarebbe mai stato scritto. Non da me, almeno.
La sua conoscenza diretta dei quattro uomini di Falco mi è stata di prezioso aiuto e li ha resi virtualmente anche amici miei. Lo ringrazio, infine, per essere intervenuto in tutti quei capitoli dove, la sua conoscenza delle dinamiche intervenute e di alcune problematiche di carattere prettamente tecnico, ha garantito le necessarie implementazioni dei testi e la loro ottimizzazione con la dovuta pertinenza.
Grazie ad Alessandro Fantato e ad Alessio Donadon, rispettivamente pilota e tecnico aeronautico presso la ditta esercente il servizio di elisoccorso di Pieve di Cadore, che mi hanno fatto conoscere da vicino (volo – ahimè – escluso) quella splendida e complessa macchina volante che è un elicottero.
Grazie a Dimitri De Gol, già Direttore della Scuola regionale soccorso alpino e Tecnico di elisoccorso, sempre pronto a fornire alle mie domande online, magari talvolta assurde o per lui scontate, risposte precise e competenti.
Grazie a Nadia Pislor, infermiera professionale del Suem 118, nonché sorella di Luca, l’infermiere rimasto a Rio Gere il pomeriggio del tragico volo, che mi ha fornito ulteriori elementi conoscitivi e spaccati straordinari di tempo di quel pomeriggio e che mi ha fatto da Cicerone durante la mia visita alla base di Pieve di Cadore.
Grazie alla centralinista del 118, Michela Casagrande, che quel giorno ha avuto il tragico compito di cercare un contatto con l’elicottero e al suo collega Andrea Faoro che mi ha mostrato come viene gestita una richiesta di intervento.
Ringrazio la dottoressa Giovanna Zilio e tutti quelli che, in un modo o nell’altro, consapevolmente o meno, mi hanno aiutato: confesso di aver attinto informazioni da foto, frasi, racconti e commenti postati in internet, testimonianze di stima e affetto indirizzate spesso direttamente ai ragazzi di Falco, quasi le potessero leggere davvero.
Un enorme grazie a i miei familiari e soprattutto ai miei figli, loro sanno perché.
Infine, un pensiero speciale per una persona alla quale devo molto: Sonia, questo libro è anche un po’ tuo!
Katia Tormen
RINGRAZIAMENTO 2
Anche per me è doveroso ringraziare. Non farlo, corrisponderebbe, nella migliore delle ipotesi, a risultare alquanto sgarbato, dimenticando cioè il vero, unico artefice di questo libro, posto che il sottoscritto è stato, alla fine, un mero collaboratore o poco più. Ma voglio ringraziare anche al di là del dovere che spesso una certa retorica di circostanza impone.
Non posso che farlo, dunque, assai volentieri, ricordando l’estenuante e brillante lavoro svolto da Katia che ringrazio per la scrittura del libro in sé, ma soprattutto ringrazio perché questo suo lavoro ha inteso, sin dall’inizio, ricordare un evento drammatico intriso di tanti significati e valori, dove quattro Amici hanno perso la propria vita.
Un evento che ha profondamente segnato la storia del Soccorso Alpino e quella del Suem 118, ma che ha anche screziato in modo indelebile la memoria di quelle comunità che abitano le Dolomiti Bellunesi e che, sin dal primo istante, quei quattro Amici hanno avvertito e sono, quindi, diventati subito anche loro Amici. Genti che in questo evento si sono riconosciute in una sorta di lutto collettivo, non di pragmatica e di facciata, ma autentico e profondo come sanno esserlo le persone che abitano le nostre terre “alte e storte” nei momenti aspri del vivere quotidiano.
Grazie, dunque, a Katia.
Dedico questo mio modesto, ma appassionato concorso a Falco I-REMS, per me anche particolarmente doloroso, a Dario, Fabrizio, Marco e Stefano e alle loro famiglie, perché a fianco del mio cuore ancora agitato dopo quelle 15.04 del 22 agosto 2009, spesso, sento battere, con un ritmo che conosco da subito, proprio il loro.
Non posso però non dedicarlo, e voglio farlo con la stessa sincera intensità, anche a Alberto “Magico” e Aldo “Olpe”, Volontari del Soccorso Alpino di San Vito di Cadore deceduti il 2011, sul Pelmo, nel corso di una missione di soccorso particolarmente complessa, di notte, in un ambiente oltremodo severo. Nel corso delle fasi dell’operazioni di calata dalla vetta, effettuata per portare soccorso ad una cordata straniera bloccata in piena parete ormai da diverse ore, con uno degli alpinisti feriti sin dal primo pomeriggio del giorno prima, il crollo improvviso di un enorme pilastro di roccia, li trascinò tragicamente nell’abisso buio, senza lasciar loro alcuna speranza.
Poi, visto che l’elenco è dolorosamente lungo, desidero ricordare anche Andrea, David e Maudi che hanno perso la vita sul Cridola, durante un’ascensione di carattere non istituzionale, ma nel corso della quale stavano preparando il più giovane dei tre agli esami di accesso al Soccorso Alpino che si sarebbero tenuti da lì a pochi mesi.
Infine, quelli che solo nel periodo più recente sono andati avanti nel corso di attività alpinistiche e scialpinistiche di carattere personale: Leonardo sotto la coltre bianca, poi Daniele e Mirco sotto un’altra tragica valanga, Enrico e Alessandro, più recentemente sull’Antelao.
Andando solo un poco più indietro desidero ricordare ancora don Sebastiano, deceduto tanti anni fa, sul Col Giralba, nel corso di un’operazione di soccorso, Franco, Marco, Simone… ma anche, per cause non correlate alle nostre montagne, Giovanni, Alex, Giorgio, Michele, Marco, Matteo, Oreste, Patrik, Angelo, Mauro, Monica… tanti altri che, con la stessa intensità, anche al di fuori di questi elenchi, riempiono ogni giorno il nostro animo di straordinario calore.
Sono del tutto consapevole che è alquanto duro leggere tutti questi nomi, ma loro sono stati, per lunghi tratti della loro esistenza, la vita stessa di queste nostre magiche, ma assurde (per quanto appena scritto), montagne. Ricordarli, dunque, deve riuscire ad evocare forza pura e non sempre debolezza, risa serene e non sempre labbra ancora serrate dal dolore.
Grazie anche a loro, dunque, per quanto ci hanno offerto.
Fabio Bristot – Rufus
1 Tratto dalla relazione pubblica dell’Agenzia Nazionale della Sicurezza al Volo (ANSV) a firma dell’ing. Alessandro Cometa, tecnico incaricato di effettuare i rilievi in zona, operazioni di indagine avvenute già il giorno 23 agosto 2009.
1 Tratto dalla relazione pubblica dell’Agenzia Nazionale della Sicurezza al Volo (ANSV) a firma dell’ing. Alessandro Cometa, tecnico incaricato di effettuare i rilievi in zona, operazioni di indagine avvenute già il giorno 23 agosto 2009.