Non era ovviamente servito il solerte impegno dell’ultima settimana di studio per recuperare le tante, troppe giornate passate lontano dai libri e dagli impegni propriamente scolastici, i tanti mesi in cui avevo francamente dimenticato, come anche l’anno prima del resto, il sapore quotidiano del sudore lasciato sul Rocci o sul Castiglioni-Mariotti.
Sui fogli già ingialliti dopo poche ore di esposizione sulle vetrate del Liceo Tiziano, spiccavano, a fianco al mio nome che sembrava quasi scritto in grassetto per dare maggiore enfasi alla mia condotta scolastica, le 4 materie con le quali ero stato rimandato a settembre, oltre ovviamente al 7 in condotta.
Materie assolutamente pesanti da recuperare, sulle quali, oltre agli esiti abbastanza oggettivi di compiti ed interrogazioni, era indubbiamente pesato sulla valutazione finale il mio carattere piuttosto impulsivo e compulsivo di allora, che mi portava spesso a primeggiare nell’ironia e nell’umorismo tout court, piuttosto che nella consecutio temporum richiesta dal greco e dal latino…
L’estate era così passata in uno studio pesante, oserei dire febbrile, in cui alle sveglie mattutine, quasi contro natura, si alternavano le lunghe ore di ripetizione pomeridiana, ore prolungate in un clima di rigore e severità, con le quali si cercava di mettere una pezza al disastro palesato solo qualche settimana prima.
Ben presto era arrivato il fatidico giorno d’inizio degli esami, un mortale e secco “uno” “due” … tre e quattro visto il numero delle materie da recuperare … che non ammetteva più appello alcuno.
Mi sembrava di essere andato piuttosto bene in italiano, dove la mia lacuna più marcata non era tanto l’aspetto sostanziale, che sarebbe dovuto essere lo scrivere decentemente bene da farsi capire, magari anche apprezzare, quanto piuttosto gli errori di grammatica banali, il segno grafico che diventava senza rimedio caco-grafia, le lettere invertite per una leggera dislessia, certamente non compresa dai dotti professori di quegli anni.
Il resto delle materie era stato dignitosamente affrontato, con la determinazione necessaria di chi ha creduto nell’obiettivo finale. Era però contestualmente subentrata la disillusione nel mondo scolastico, che andava sempre più radicandosi, proprio perché chi ti insegnava Dante con la parafrasi commentata accanto (voglio dire sullo stesso libro, poiché senza non sarebbe riuscito, anzi riuscita, ad avanzare di una terzina), era, paradossalmente, lo stesso docente che poi valutava il tuo scrivere. Così, giusto per rimanere coerenti.
Al di là di questa nota vera e pungente quanto basta, quindi anche legittima ad essere ricordata, riponevo comprovate speranze che le prove effettuate in un fine settembre solare avrebbero dovuto condurmi al traguardo finale, quello di accedere alla sospirata seconda Liceo Classico “Tiziano”.
Sulla scorta di queste adolescenziali certezze e spinto anche da quella che era diventata nell’ultimo anno una passione autentica, dunque assai accentuata come è proprio di talune tensioni giovanili, avevo proposto di effettuare una gita sulla Schiara a quello che era ed è uno dei miei migliori amici.
Sulla base di alcune indicazioni raccolte nel tempo da un paio di guide alpinistiche e di altre informazioni raccolte dai “forti” arrampicatori locali, gli avevo proposto di affrontare quella via che da sempre, nel gruppo degli alpinisti bellunesi, era considerata “una classica semplice da fare”. Lo Spigolo Rossi-Cusinato alla 2^ Pala del Balcon era, infatti, una via degli anni ’50, tracciata lungo il pilastro sud-sud-ovest della 2^ Pala. Una bella salita su roccia piuttosto buona, di difficoltà contenute, mai superiori al 4+° e, dunque, un itinerario che ogni neofita doveva di necessità percorrere prima di cimentarsi con le altre vie più complesse ed impegnative del gruppo della Schiara.
Presi entrambi dal nostro piccolo, grande progetto, per quella che di fatto sarebbe stata la seconda arrampicata nel gruppo dello Schiara (nda: la prima era stata, banale ricordarlo, l’ascensione della Gusela del Vescovà con qualche errore d’interpretazione della via, posto che il primo tiro era stato fatto seguendo la logica linea di salita della via Normale, mentre il secondo l’altrettanta logica prosecuzione…lungo il secondo tiro della via Tiziano…) e sulle ali fragili dell’entusiasmo, avevamo anche deciso di acquistare una corda, quasi a suggellare l’evento o, forse, quale forma propiziatoria.
Non certo confortati dai pochi soldi presenti nelle tasche, ormai lise dal troppo cercarli, avevamo tra le altre cose condiviso il patto scellerato di acquistarla al 50% ciascuno e, parimenti, di poterla utilizzare secondo temi e modi convenuti, sempre al 50% del tempo. Cioè, avevamo scelto il miglior metodo per comprometterne già dopo poche settimane l’affidabilità e la sicurezza di una corda nuova, anche al netto dell’onestà intellettuale che sarebbe dovuta subentrare se uno dei due l’avesse in qualche modo parzialmente rovinata o compromessa.
In ogni caso e, al di là degli aspetti gestionali che sarebbero stati prossimi e futuri, l’Ederlid fiammante, da undici millimetri, appena acquistata nel negozio di Tutto Sport a Longarone, da † Gigi, già riverberava di un rosso brillante, con i suoi piccoli inserti blu e gialli tutti bene in evidenza e geometricamente posizionati sulla calza liscia e morbida. Una semplice corda che sembrava essere, da una parte un lungo serpente rossastro ancora stretto nel cellophane che la proteggeva, dall’altra, in termini strettamente emozionali, già qualcosa in più della macchina che ancora non avevamo. Insomma, un piccolo sogno a cui appendere la nostra voglia di avventura, ma anche le nostre vite.
L’indomani, attrezzati piuttosto pesantemente, come era nostra, erronea abitudine di allora, dopo aver preso il bus a Belluno, eravamo saliti alle Case Bortot in pochi minuti, fiduciosi nei nostri mezzi psicofisici ed ancora di più sollevati, almeno io, da non dover più aprire libro alcuno, se non quello di vetta.
Gli zaini, davvero al limite della decenza, considerato che portavamo con noi ben due corde da 11 millimetri e addirittura alcune lattine di frutta sciroppata…, non impedivano comunque di avanzare velocemente, tanto che in poco meno di due ore eravamo già in vista del 7° Alpini.
Le condizioni meteo rispetto al sole molto chiaro che avevamo intravisto al mattino presto, prima di partire dalle nostre abitazioni, erano andate cambiando in modo repentino. Il colore del cielo, sino ad allora di un azzurro di rara intensità, stava macchiandosi in più parti malamente di grigio. Il calore sentito sino a pochi minuti prima sotto il fogliame dei faggi del Calvario (nda: tratto finale di salita al Rifugio 7° Alpini piuttosto faticosa), aveva ormai lasciato posto ad un vento fastidioso, viatico non così benevolo per arrampicare sulle Pale del Balcon e per poi, sempre in giornata, raggiungere la vetta della Schiara e fare, infine, ritorno a Belluno.
Il gestore del rifugio, com’era prassi consolidata per quelli che potevano vantare una reale esperienza di vita tra i monti, quale autentico e profondo conoscitore della zona, aveva voluto conoscere la nostra meta, interrogandoci con domande pressanti e maliziose sulle caratteristiche della via che ci eravamo prefissati di salire. Ciò, non tanto per una sadica curiosità, ma più banalmente a causa della nostra età, non proprio matura da un punto di vista alpinistico e, forse, anche a causa del nostro outfit, inadeguato per le tante cose appese in modo maldestro agli zaini.
In realtà, l’itinerario lo conosceva a memoria per essere stato uno dei più forti alpinisti bellunesi degli anni ’70 e per aver aperto, proprio del gruppo della Schiara, numerose salite di grande impegno e difficoltà. Era stato, quindi, lo scrupolo proprio dell’alpinista e anche un po’ quello di gestore, a voler indagare se fossimo davvero consapevoli della nostra meta, oppure se fosse la mera casualità a guidarci. Quella casualità che in situazioni critiche avrebbe anche potuto impadronirsi della nostra volontà e soprattutto della nostra lucidità.
Fatto sta che l’essere forse riuscito a mettere con una certa disinvoltura diverse parole sensate di natura tecnica una dietro all’altra, doveva averlo fatto positivamente riflettere sulla nostra assennatezza e prudenza, visto che avevo anche fatto diversi richiami a chi (nda: Berto Canzan) ci aveva dato le dritte sulla salita.
Con estrema disinvoltura e sicurezza avevamo, dunque, lasciato il rifugio per proseguire, poi, lungo il comodo sentiero che sale con un fare piuttosto sinuoso tra i mughi sino all’attacco della ferrata Sperti. Da qui, dopo un controllo meticoloso agli zaini e al loro contenuto, verificando se l’attrezzatura alpinistica fosse tutta in regola (nda: genietti allo sbaraglio, poiché sarebbe forse stato meglio aver effettuato prima questo genere di controllo …) e per evitare impicci durante la salita, avevamo proseguito agilmente sulle balze rocciose che adducono al terrazzo erboso ove è collocato il bivacco Sperti. Un balcone sulla Val Belluna con alle spalle le belle quinte denominate per l’appunto Pale del Balcon che da Belluno sembrano dei merletti di un castello sospeso in cielo.
L’aria in quota era indubbiamente frizzante e le narici respiravano la brezza gradevole che, dopo le vampate di calore rilasciate dai mughi sino a poco prima, riusciva ora ad allargare favorevolmente i polmoni.
Il passo ed il ritmo erano davvero notevoli. Il dialogo pure. Parlavamo intensamente e piacevolmente di politica, di donne, di credo religiosi, ma anche di quanto stavamo per compiere (quasi stessimo affrontando un’epica impresa degna di essere poi narrata tra gli amici), dimenticando però di alzare la testa al cielo, dimenticando pure di girare il collo a valle ed iniziare magari a scorgere il colore di alcuni nuvoloni gonfi d’acqua, che non sarebbero stati di certo forieri di bel tempo di quella tarda mattinata.
A testa bassa, invece, avevamo iniziato a percorrere la cengia che taglia alla base, in modo assai netto, la 1^ Pala del Balcon e che, secondo, quanto avevamo compreso, doveva portarci nei pressi dell’attacco dello Spigolo Rossi. Se la cengia, data la larghezza e la comoda percorribilità, era di per sé evidente, non lo era più da qualche minuto il contorno delle rocce attorno, ormai confuse nella nebbia che in pochi secondi aveva avvolto noi e le Pale del Balcon.
Convinti e supponenti nel nostro ardire, avevamo deciso di proseguire incuranti di quel grigio che ormai pervadeva lo spazio attorno e, con un pezzo di fotocopia ormai sdrucita in mano a ricordarci l’attacco della via, avanzavamo con un fare più perplesso che sicuro, alla ricerca di quella nicchia nera, segnata come attacco della nostra ascensione.
La relazione, infatti, parlava in modo chiaro di una nicchia evidente, offrendo poco margine alle interpretazioni, anzi nessuna se vogliamo essere onesti. Noi, solo dopo una buona mezz’ora di tentativi, eravamo alla fine riusciti a trovare la famosa cavità e ad allestire il primo ancoraggio proprio sulla volta della stessa, dove una rassicurante clessidra ci inviata ormai a salire.
Indifferenti alla nebbia che ormai non permetteva di vedere alcunché e soprattutto inconsapevoli che quelle gocce non erano le lacrime che dopo avremo versato, ma gocce di pioggia vera, ancorché ancora limitate, avevamo iniziato la salita con i primi comodo passaggi.
Due tiri gradevoli, come detto, su roccia molto buona, a tratti marmorea, mi avevano condotto piuttosto in alto, sfruttando per entrambe le lunghezze di corda tutti i 50 metri. Il mio compagno, Gibo, saliva rapido, noncurante della zavorra sulle spalle che era poi il suo zaino ed una buona parte del contenuto del mio.
La sosta del secondo tiro era stata fatta su una clessidra di roccia grigia particolarmente sana, dal diametro rassicurante, pertanto piuttosto robusta, dove spiccava già un bello spezzone colorato che avevo collocato e tramite il quale mi ero prima autoassicurato e, poi, assicurato a mia volta Gibo.
Il terrazzino piuttosto comodo ci aveva permesso lo scambio di un paio di frasi non proprio di circostanza, considerato che la nebbia andava facendosi di minuto in minuto sempre più densa, quasi appiccicaticcia.
Gibo voleva a questo punto effettuare il tiro successivo. Gli avevo passato parte del materiale e scambiati i pesi degli zaini, quindi lo avevo rassicurato sulla tenuta delle clessidre, sulle quali francamente nutriva qualche dubbio, e sulle condizioni generali della via. In particolare, avevo ricordato le difficoltà modeste che non avrebbero dovuto incutergli alcun timore, ma anche ribadito, tranquillizzandolo circa lo stato di chiodatura sufficiente della salita.
Ora iniziava a piovere indubbiamente con maggiore intensità, tanto che alzando il capo si provava il classico fastidio delle gocce che si conficcavano dritte negli occhi, già intrisi malamente di sudore, come piccoli e fastidiosi aghi.
Gibo stava salendo una sorta di muro grigio solcato qua e là da macchie gialle, che più in alto diventavano più estese. Solo il nostro vociare sostenuto, ma sconveniente visto l’ambiente, riusciva a tenerci collegati. La corda rossa saliva ora più lentamente, con piccoli sussulti. Ne chiesi allora ragione e Gibo, rispondendomi un po’ trafelato mi rassicurava sul fatto che aveva trovato una clessidra e stava inserendovi un cordino per poi rinviare la corda. Lo avvisavo allora che stava piovendo con una certa insistenza, invitandolo a velocizzare la manovra e a trovare la sosta successiva, in modo da pervenire almeno a metà della via prima che il tempo potesse ulteriormente peggiorare.
A questo punto, cosa che mi era parsa abbastanza strana per non dire impossibile, era il fatto che Gibo aveva convintamente asserito di non sentire più di tanto scendere la pioggia, solo qualche goccia di tanto in tanto. Una constatazione che mi fece supporre senza eccessivo sforzo che fosse o sotto un tetto o su un tratto estremamente verticale, magari sovrastato da un qualche risalto roccioso, dove ancora l’acquazzone non si faceva sentire nella sua intensità.
Questa ipotesi andava facendosi sempre più veritiera poiché alla domanda che chiedeva ragione del procedere lento, la risposta incerta, che tradiva anche un certo affanno, era stata la difficoltà di trovare appigli di buone dimensioni negli ultimi tre, quattro metri di salita.
A quel punto, gli suggerii di fare particolare attenzione poiché non poteva essere sul percorso corretto proprio a causa delle difficoltà eccessive che stava incontrando. Sull’ascensione alla Gusela del Vescovà aveva dato prova di determinazione e buona dinamica nei movimenti, non poteva dunque essere su quel quarto grado, al massimo, che veniva descritto nella guida dello stesso Piero Rossi, primo salitore di quel bel pilastro.
Gibo, nel frattempo, era avanzato ancora di un paio di metri, forse tre… poi la corda si era fermata del tutto, dopo che per qualche decina di secondi era sembrata una specie di jo jo: saliva, e allora la sfilavo lentamente dal mezzo barcaiolo, scendeva, e allora la recuperavo veloce con azione contraria.
Un po’ per le condizioni meteo, un po’ per quel silenzio eccessivamente prolungato, avevo iniziato a preoccuparmi davvero, quasi ad agitarmi, poiché non c’era più alcuna comunicazione da quasi un minuto. In un certo senso, temevo al solo pensiero di cosa stesse succedendo là in alto, non capivo perché sembrasse tutto così rallentato. Quella corda pressoché ferma nella foschia, appena sopra il mio capo, quel silenzio che ingessava l’aspettare non erano infatti sinonimo di grande tranquillità.
All’improvviso un urlo squarciò il canale tra la Prima e la Seconda Pala del Balcon, sin su a Forcella Viel … un urlo commisto di rabbia e paura, delusione e così intenso da essere udito sino al rifugio … cascheeee
Gibo stava volando…, anzi era già volato, la sosta schizzata in aria, ed io con lei, per ricadere pesantemente sul terrazzino … Mentre l’ultima vocale di quel stentoreo cascheeee mi rimbombava ancora ferocemente nelle orecchie con forza inaudita, quasi quel volo di Gibo non fosse ancora del tutto terminato.
Ora il terrore aveva pervaso ogni mio muscolo, tremavo. Il terrore, che mi impediva di pronunciare anche solo un “Gibo?”…, mi dilaniava, là impotente per una manciata di secondo interminabili.
Se non avessi avuto risposta alcuna, se il mio compagno ed amico fosse ormai esangue … erano lampi che mi stravolgevano la volontà … poi, non so se attimi o secondi dopo, raccolte le residue forze nervose gridai con vigore il suo nome, con quanto fiato avevo in gola: “Gibooooo!”
Non rispose direttamente né immediatamente, ma iniziò ad urlare “calacalacala”, come un disco rotto in vinile, la cui puntina non sa andare oltre al solco successivo.
Per quanto gli insegnamenti fossero serviti a garantire una buona sicura, limitando al massimo l’urto d’arresto, la corda era pitturata per un buon metro sulla roccia. Tanti peletti rossi facevano bella mostra del lavoro patito e dello sfregamento avvenuto … “calacalacala” … era quindi la risposta che mi aspettavo, la più importante del resto, significava che era vivo, tanto da poter parlare.
Iniziavo, quindi, a calare lentamente preoccupato che il nostro cordone ombelicale non avesse riportato eccessivi sfilacciamenti, il tutto sotto un diluvio che aveva già tolto i peletti rossi dalla roccia e con l’acqua che ormai percolava da tutta la parete
“Calacalacala”, continuava a ripetere Gibo in modo sincopato. Sentivo ancora il calore del moschettone sul quale era stato realizzato il mezzo barcaiolo che aveva trattenuto lo strappo seguito al volo, sentivo il rumore del mezzo barcaiolo che ora sprigionava acqua intrisa di sporco e tanta paura che potesse succedere ancora qualcosa. Non sapevo le esatte condizioni del mio amico. Non sapevo se la corda più sora fosse stata lesionata. Non sapevo, inoltre, quando potesse ancora reggere la clessidra adoperata per il rinvio nella fase della progressione. Non sapevo se calare fosse la manovra corretta da farsi. Troppe cose non sapevo, né riuscivo a dare risposte veloci e razionali ai tanti quesiti che mi andavo ponendo.
Mi arrestai, infatti, ad un tratto, in modo improvviso. Compresi che non sarei mai riuscito a calare Gibo sino alla sosta: facendo due conti invero di poco conto, e guardando le poche spire rimaste a terra sul piccolo terrazzino, mi ripetevo mentalmente, quasi per dare certezza alle mie supposizioni, che Gibo era salito almeno di qualche metro oltre la metà corda. Prima di volare erano stati sfilati all’incirca 30 metri o poco meno, fattore, questo, che non avrebbe permesso di manovrare con alcuna tranquillità. Anzi, non sarei mai riuscito a calarlo in sosta neppure con un miracolo, neppure sfruttando l’allungamento stesso della corda. L’ederlid misurava 50 metri esatti e, tolti un paio di metri utilizzati per le legature all’imbrago, ne rimanevo poco più di 24. Gridai allora a Gibo che avrei dovuto fermarmi nella manovra, senza proseguire oltre neppure di un centimetro, ma il “calacalacala” insistente e gridato in modo sempre più lacerante, di certo non lo aiutava a capire le mie intenzioni né mi faceva intendere come avrei potuto o dovuto impiegare l’altra corda che avevo nello zaino.
Mi assalì di nuovo il panico, mentre la pioggia entrava ormai senza rispetto dietro il collo e nelle maniche della giacca, inzuppando ogni singolo lembo di pelle.
In ogni caso avevo bloccato la calata. Ora, là in alto, vedevo le gambe di Gibo spuntare dalla nebbia, muoversi alla ricerca di un qualche appoggio sulla roccia resa nerastra dall’acqua che scendeva copiosa lungo la parete. Armeggiavo intanto con la corda blu, anche questa un Ederlid di 40 metri dello zio di Gibo, che avevo tolto non senza difficoltà dallo zaino. Non riuscivo a capire cosa e come fare. Quelle gambe a penzoloni, senza vedere l’intera sagoma del corpo generava un’ansia indescrivibile e ancora impotenza diffusa.
Mi concessi qualche secondo di tregua, respirando con profondità. Poi con calma e maggiore riflessione capii che avrei dovuto provare con una giunzione delle due corde e, quindi, effettuare un passaggio dei nodi sul freno, cioè sul mezzo barcaiolo, attraverso un gioco di autobloccanti, asole e contro-asole difficile, ma non impossibile. Avevo recuperato pressoché nulla dalla mia poca e scarsa esperienza, ma tutto dalla teoria improvvisata che, proprio in questi frangenti, diventa una sorta di quid risolutore o l’elemento che fa invece peggiorare la situazione spesso in modo irrimediabile. Gibo, il mio amico, aveva letteralmente appesa la sua vita tra le mie mani tremolanti, ma decise a non lasciarlo da solo.
Ebbene, forse, anzi sicuramente, per successivi momenti fortunati ero, alla fine, riuscito a calare Gibo sino in sosta … ad abbracciarlo mentre ancora tremava (ed io con lui) … ed assicurarlo saldamente alla sosta che era stata senza ombra di dubbio la nostra salvezza.
Le sue dita sanguinavano, le sue mani e le sue braccia non riuscivano a fermarsi in una sorta di balletto irrisorio causato dalla comprensibile agitazione. Gli chiesi se avesse urtato la schiena o la testa … nessuna risposta …se non “ò la boca seca come al carton” (nda: battuta che ancora oggi ricordiamo con estremo piacere), seguita da un ordine categorico: “dame da bere, te prego dame da bere.”
Gli passai un Billy (nda: cartoncino contenente succo di mela che andava piuttosto di moda in quegli anni), ma le mani che non si erano ancora calmate non riuscivano ad inserire la cannuccia nell’apposito forellino. Lo aiutai con la calma dovuta, rinnovando l’invito, ora pronunciato con maggiore determinazione, di dirmi con esattezza se accusava un qualche dolore. “Dapartut”, fu l’immediata risposta, facendo però intravedere un primo, timido sorriso, tra le smorfie del viso e una mimica che sembrava ora buffa.
Compresi alla fine che, al di là delle escoriazioni sulle braccia e sulle mani, la parte che più doleva era la caviglia e non erano, dunque, state interessate parti vitali del corpo, giù lungo quei 12 e più metri di volo.
Dopo aver bevuto ancora qualcosa, vista l’inclemenza del tempo, decidevamo di non perdere ulteriore tempo ed iniziare ad apprestare le calate alla base della parete sotto una pioggia persistente. La prima calata a corda doppia, utilizzando anche la corda magica blu, mi aveva fatto raggiungere una buona clessidra che avevo però ritenuto di rafforzare (sarà poi stato vero?) con un chiodo, quindi Gibo era sceso veloce assicurato dal basso. Entrambi più tranquilli, ci eravamo ben assicurati alla roccia e avevamo stimato la lunghezza che avremmo ancora dovuto percorrere prima ri raggiungere la cengia basale.
Si trattava ora di recuperare la corda tirando per il capo giusto come conviene a questo tipo di manovra, ma più tiravo più la corda sembrava tornare indietro. Continuava a piovere con rara intensità. Riprovai con più vigore per alcune volte, mas enza alcun esito. Chiesi allora a Gibo di darmi una mano, ma nonostante le quattro braccia tese allo spasimo per recuperare quelle dannate corde, queste non scorrevano, quasi da sembrare bloccate,
Non c’era tanto tempo per pensare sul come o sul perché fosse accaduta una cosa simile. L’unica soluzione era mettere un paio di prusik (nda: nodo autobloccante) e risalire sino alla sosta in alto e capire cosa fosse realmente successo.
L’adrenalina faceva per fortuna ancora il suo lavoro, dopo pochi minuti ero in sosta… una bestemmia detta a mezza voce… “cazzo, non poteva, non poteva per forza scorrere”. La corda era stata posizionata (nda: l’avevo posizionata) nella clessidra e per forza di cose aveva ragione lei a restare ferma, bloccata, inamovibile! Un errore sconcertante, il mio, dovuto all’assenza di esperienza e, forse, anche al timore di sprecare materiale, lasciando in loco un cordino prezioso che con, un certo sforzo, assieme a pochi altri, avevamo comprato.
Mentre inserivo velocemente un cordino giallo riflettevo sul ragionamento che avevo fatto qualche minuto, su come fossi riuscito a commettere un errore così madornale, di certo motivato anche dalla necessità di risparmiare sull’uso dissennato di cordini, che sarebbero stati utilizzati anche per le doppie successive… neanche avessimo dovuto fare decine di doppie sino a Bolzano Bellunese! Ma tant’è.
In circa un’altra ora raggiungevamo la cengia dopo che, forse preso dall’eccessiva stanchezza o ancora in uno stato di autentico torpore per quanto successo, non l’avevo neppure vista. Ero stato, infatti, malamente insultato da Gibo quando si era accorto che stavo continuato con le doppie la mia corsa verso il canale, a sud della cengia, commettendo un evidente errore di valutazione dovuto anche alla nebbia persistente.
Gibo avanzava, anzi si trascinava con tutte le sue forze, la gamba e la caviglia erano alquanto doloranti. nebbia ed acqua che entravano ovunque facevano il resto. Era ripreso in entrambi quel senso d’ansia per la discesa che avremmo dovuto affrontare lungo la ferrata. Per questa ragione e per evitare pericolosi rilassamenti emotivi, non ci concedemmo neppure una sosta al bivacco tale era il desiderio di ritornare velocemente al rifugio.
Lungo la discesa venivamo di tanto in tanto investiti da piccole cascate d’acqua di carattere ormai continuativo, cataratte che sembravano essersi incanalate tutte là. Ogni tanto partivano piccole scariche di ghiaia smossa dalla acqua che sembrava inzuppare ogni parte della montagna e di chi ci stava sopra. Altre volte, sassi di dimensioni anche ragguardevoli sibilavano a pochi metri per infrangendosi poi più sotto, sul basamento delle Pale.
Solo alle 16.30, cioè dopo ca. 4 ore dal volo fatidico, da quel “cascheee” potente e dal quel ”calacalacala” che ancora per tante notti avrebbe accompagnato le mie veglie, raggiungevamo il rifugio, distrutti dalla fatica, ma felici di esserci arrivati sani.
Appena arrivati nei pressi del rifugio, il gestore, che era poi a quei tempi Armando Sitta, ci venne incontro con passo veloce, chiedendoci cosa fosse successo, visto che qualche ora prima aveva sentito urlare e dichiarando apertamente che con quel fortunale si era davvero preoccupato per noi.
Dopo qualche istante di concentrazione, dissi la mia balla del secolo, ricordando come Gibo correndo lungo il sentiero avesse messo male un piede sulla radice di mugo resa scivolosa dalla pioggia e su come si fosse procurato un brutto trauma alla caviglia a causa di una torsione incontrollata.
Non vi fu alcuna risposta, ma lo scuotimento ripetuto del capo era stato il migliore degli epitei, quasi a dire ad alta voce, siete dei “boce mone!”
L’indomani, assai mogi, con guardo chino e dimesso, senza l’enfasi dell’andata avevamo già di buon mattino preso la via della discesa verso valle. Non erano bastate cinque ore per scendere alle Case Bortot, un calvario al contrario flagellato da una miriade di tappe dovute non tanto al rosario che pur sapevamo ormai a memoria e che andavamo arricchendo di varianti fantasiose, ma dalla caviglia di Gibo, ormai un melone rossiccio con la presenza di sfumature marroni e ripieno di venuzze rosse.
Lo Spigolo Rossi sarei tornato a farlo lo stesso anno con † Marco Zago e, successivamente altre volte, tra le quali una volta slegato in invernale viste le difficoltà modeste (nda: invernale per modo di dire visto che la fine degli anni ’80 era assai poco caratterizzata dalla neve) con Dario Scagnet, Franco Fiamoi ed Enzo Megiollaro ed una altra volta da solo, l’anno successivo.
Con Gibo, invece, ancora oggi recuperiamo volentieri quei momenti, felici di poterli raccontare a quasi quaranta anni di distanza.
Fabio Bristot
Che avvincente questo racconto, un’ esperienza trascritta in modo pulito, umile, vero
Io …non potrei mai affrontare ferrate o scalate ma amo infinitamente la montagna, in tutte le sue sfumature! Leggere di montagna mi appassiona molto, soprattutto se chi scrive riesce a descrivere un esperienza in modo cosí reale da farmi immaginare di essere lì, su quella parete, su quel salto di roccia dove io potrei sparire per la paura che mi provocano il vuoto e l’esposto. .. finisce che anche in situazioni che possono sembrare ridicole, io mi “accuccio”, le gambe tremanti mi abbandonano all’ improvviso.
Invece se leggo, trattengo il respiro e posso “vivere” quel passaggio, lo posso immaginare e attraversare…quindi grazie! E comunque…. ho empatizzato alla grande sul sudore lasciato sul Rocci e sul Castiglione Mariotti ( Sono stata piú rimandata a settembre che promossa)😄
Grazie davvero per questo racconto, per l’amore che testimonia per la montagna e per chi la vive!