Dopo la gustosa colazione consumata in un locale appena fuori Belluno, tappa d’obbligo che aveva fatto perdere a Gianni e Mauro qualche istante in più del dovuto per assaggiare dei croissant gonfi di marmellata ancora tiepidi da forno, il tragitto verso il Passo Duran era stato alquanto veloce. Solo nell’ultimo tratto di strada che adduce al gruppo della Moiazza, meta della giornata, Gianni aveva chiesto a Mauro, neppure tanto ironicamente, di rallentare un poco e di tagliare meglio quelle curve dall’accentuata sinuosità. La succulenta colazione consumata solo una ventina di minuti prima gli stava dando, infatti, dei segnali poco incoraggianti e lo stomaco era il primo a soffrirne. Temendo davvero per i tappetini della macchina, Gianni non aveva perso l’occasione per rimarcare ancora un paio di volte quell’iniziale disagio, iniziando preventivamente ad abbassare il finestrino. Poi, Mauro aveva iniziato a tenere una guida meno sportiva ed erano ben presto arrivati nel luogo prescelto.
Appena parcheggiato con cura negli stalli antistanti ad uno dei due rifugi, posti adiacenti alla sommità del valico, erano scesi con una certa pigrizia dall’automobile, stiracchiandosi un poco gli arti superiori, quasi a voler scacciare gli ultimi richiami del letto caldo abbandonato al suono della sveglia. Quindi, si erano dedicati ad organizzare la salita dopo aver respirato l’aria frizzante del mattino per qualche decina di secondi.
Mentre Mauro controllava con estrema cura la propria dotazione personale, Gianni, subito ripresosi da quel leggero malessere accusato durante il tragitto, aveva immediatamente provveduto alla cernita dei materiali e a selezionare quelli strettamente indispensabili per l’ascensione prescelta solo qualche giorno prima. Anche se Mauro stava ormai crescendo notevolmente da un punto di vista alpinistico, Gianni era il più esperto dei due e quello che vantava maggiore esperienza: questo compito non poteva pertanto che aspettare a lui. Aveva, infatti, posto particolare attenzione alla scelta di alcuni chiodi a lama di acciaio dolce che avrebbero potuto essere magari utili, in quanto la via aveva si e no due ripetizioni e si era appreso direttamente dal primo salitore che, nel tratto chiave, qualche protezione in più avrebbe reso l’arrampicata più sicura. A seguire, aveva selezionato anche alcuni spezzoni di cordino color arancio più lunghi di quelli che aveva già messo a tracolla e, avvolti in piccole matassine, li aveva risposti nel fondo dello zaino.
Alcune barrette di cioccolato, un paio di frutti a testa e due borracce di alluminio smaltato, una di te ed una acqua, era quello che si erano concessi di portare con sé, oltre ad una piccola pochette di pronto soccorso contenente alcune garze, delle bende e dei cerotti medicali.
Dopo la solita camminata molto veloce, una sorta di corsa indiavolata in realtà, che li aveva condotti quasi alla base della parete, la coppia aveva scelto un sentierino in mezzo alla mugheta per arrivare all’attacco della via più rapidamente, una traccia ostica, ma di certo più diretta.
Anche stando alla base del conoide formato dal grosso ciottolame che ora stavano risalendo, l’attacco era un punto facilmente individuabile, poiché posto all’inizio di un diedrino marcato, interrotto dopo una trentina di metri da un tetto evidente che sembrava aggirabile con facilità sulla sinistra, sino a raggiungere la soprastante, larga cengia erbosa.
Quel primo tratto ben indicato anche nella fotocopia della relazione che avevano con sé, era anche il primo tiro di corda che Gianni e Mauro avrebbero dovuto affrontare della “Via del Beato”, un itinerario aperto solo un paio di anni prima da Soro Dorotei e Fulcio Miari. Una via molto bella, aerea, abbastanza sostenuta, con alcuni passi in artificiale di A2 che, negli anni successivi, sarebbero stati forzati in libera con una gradazione assimilabile al 6b/6b+, gradi che in montagna incutevano sempre un certo timore a prescindere dallo stato di chiodatura.
Insomma, un itinerario di difficoltà medio-alta che poteva essere fatto in poco meno di tre ore, vista l’eccellente preparazione dei due alpinisti che, già all’inizio stagione, avevano arrampicato spesso assieme su numerose vie delle Dolomiti bellunesi e svolto una discreta attività anche in falesia.
La traccia che stavano seguendo terminava improvvisamente in un tappeto di fiori gialli che adornavano, alla base, alcuni massi di ragguardevoli dimensioni, crolli di un lontano passato provenienti dalla parte mediana della Pala del Belia. Quell’effluvio tardo primaverile che risultava oltremodo gradevole da sentirsi di primo mattino e il sole che riscaldava piano piano la roccia, conferendole riflessi ocra e arancio, stavano dando un tocco speciale alla giornata. Particolari naturali che suggerivano un viatico eccellente per iniziare la salita della via in modo sicuro e veloce, con l’animo rasserenato da tanto bellezza e dalla pace che ovattava i flebili suoni della vallata.
La coppia aveva abbandonato ben presto quelle piacevoli sensazioni, concentrandosi poi nelle azioni preparatorie alla salita ed affrontando le prime, facili lunghezze di corda.
I primi tiri erano stati, infatti, effettuati con estrema velocità. Quarto grado sostenuto con molti passi di quinto che era, forse, qualcosina in più, ma si sa che in quegli anni la moda, neppure tanto celata, era degradare perché “non si sa mai”. Dove quel “si sa mai” era riferito a quanti avrebbero potuto opinare in caso di un’eccessiva sopravvalutazione, condizione che avrebbe in qualche modo portato a screditare le capacità alpinistiche degli apritori.
Sta di fatto che i due amici erano saliti con una certa disinvoltura lungo quel tratto di via e, ad una sosta, terminato il tiro di competenza, Mauro aveva chiesto di poter sorseggiare del te.
Gianni aveva approfittato di quella manciata di secondi per sciogliere le corde da alcune asole fastidiose ed aveva, infine, passato lo zaino a Mauro perché potesse compiere il tiro successivo che gli toccava, salendo la via a comando alternato.
Con la sua proverbiale calma, ma senza sbagliare un movimento, incedeva ora su un tratto leggermente friabile, dove serviva notevole concentrazione. La roccia malsicura non faceva venire meno la rara eleganza con la quale si muoveva da sempre, indifferentemente che fossero indicate difficoltà basse o alte. La scelta degli appigli e degli appoggi era per lui quanto di più naturale ci fosse. Non un movimento che non fosse sintesi bilanciata di equilibrio e minimo sforzo: un fare armonioso che faceva ancor più apprezzare il gesto elegante per quanti lo vedevano scalare con quella grazia.
Ora era di nuovo il turno di Mauro che aveva iniziato ad arrampicare solo qualche anno prima, dopo essere passato per l’imprescindibile corso roccia tenuto dalla locale Sezione Cai di Belluno. Un giovane promettente che aveva da subito colto lo spirito della montagna più autentica: rispetto, commisto a fatica, passione ed emozioni straordinarie prima da ricevere e poi da donare agli altri.
Gianni gli aveva passato parte del materiale, anche i chiodi a lama in precedenza selezionati, forse gli unici da poter mettere in caso di bisogno nel muretto giallo che si elevava severo appena sopra le loro teste. Magari non sarebbero dovuti servire, ma trattandosi di una delle prime ripetizioni era meglio essere prudenti.
Un’ultima sbirciata alla fotocopia della relazione per meglio fissare gli elementi chiave del tiro e Mauro era, quindi, partito con decisione, riuscendo prima a posizionare meglio la corda tra le gambe e aggredendo, in successione, le prime liste rocciose sul tratto più verticale, quasi aggettante della parete. Poco dopo, con un rapido movimento aveva rinviato le corde una prima volta, utilizzando un buon chiodo, infisso in profondità in una fessura di bella roccia compatta, quindi, si era spostato di qualche spanna più a destra, dove una tacca ben definita gli aveva permesso di appoggiare con più efficacia il piede.
Era ormai a circa una decina metri dalla sosta e, in previsione di posizionare il secondo rinvio, aveva fatto una leggera spaccata per meglio aderire alla roccia, defaticare la muscolatura del braccio e poter infilare la doppia corda nel moschettone con maggiore agilità. L’operazione era stata fatta come tutte le altre volte con destrezza e poteva, dunque, affrontare i metri successivi, molto delicati per le difficoltà elevate, sentendosi più protetto proprio dal punto di rinvio appena collocato.
Si era allora alzato di un poco dalla precedente posizione per raggiungere una buona presa per la mano sinistra, quindi, aveva iniziato a spingere con le gambe per raggiungere anche con l’altra mano un appiglio leggermente svasato, che gli avrebbe permesso di superare con più facilità il passo che si stava rilevando davvero ostico.
La tensione muscolare delle braccia dava evidenza dello sforzo prodotto, il leggero soffio emesso con le labbra, a guisa di un mantice rotto, offriva invece conseguente corollario alla tensione psicologica con cui quel tratto di grande difficoltà stava per essere affrontato.
Ad un tratto accadde l’imprevedibile: un lieve, quasi impercettibile scricchiolio anticipò l’urlo rabbioso che pronunciò quando l’appiglio, sotto il carico della mano, si frantumò all’istante come un biscotto secco. Il corpo fece allora una naturale torsione, con una rotazione del bacino seguita dall’altra mano che scivolò a sua volta naturalmente dalla presa superiore, incapace di sostenere quelle forze che lo trascinavano malamente in basso.
Mentre tutto questo avveniva in una sorta di rallenty mentale, si sentì in tutta la parete il grido di Mauro indirizzato alla volta di Gianni di tenere la corda. Gianni, che aveva realizzato da subito cosa stesse accadendo, si tese allo spasmo con le braccia pronte ad effettuare la necessaria dinamicità alla sicura.
Attimi dopo attimi con l’eco del grido ancora nell’aria: il tempo sembrava essersi cristallizzato in una prima che non c’era più ed un dopo ancora tutto da svolgersi.
Fu allora che Mauro tentò l’ultimo gesto razionale, oppure, secondo un’altra lettura, il gesto estremo ed istintivo per bloccare la caduta rovinosa verso il vuoto. Trovandosi con il bacino grossomodo all’altezza del chiodo che aveva rinviato, nel momento in cui si era trovato senza più le mani a sorreggerlo, aveva tentato disperatamente di tenersi allo stesso rinvio. La mano a sfiorare il cordino azzurrognolo che lo componeva assieme ad un paio di moschettoni, la presa vigorosa che sa di tentare l’impossibile e… il chiodo che, con quella trazione insolita, si sfila dalla sua sede naturale restando letteralmente in mano allo sventurato che, ora, senza più nulla potere precipitava in basso pesantemente.
Mauro non era, perciò, riuscito a fermare quel cortocircuito di equilibri venuti meno e che avrebbero in realtà anticipato solo di qualche istante la sua caduta.
Era volato da un’altezza all’incirca di sei, sette metri dal primo rinvio, un volo risultato, alla fine, davvero goffo in ragione di quella torsione del busto attorcigliatosi malamente su sé stesso.
Seguì un tonfo con la schiena su una cengia larga poco più di un paio di spanne che ne assorbì il colpo iniziale: un urto di certo devastante per il costato e soprattutto per la colonna. Poi, Mauro, con una sorta di rimbalzo inanimato era ricaduto per altri tre, quattro metri, finalmente nel vuoto, andando a penzolare di peso nel baratro sconfinato che stava sotto.
Gianni, solo dopo quella sorta di rimbalzo anomalo, di un corpo che sembrava a questo punto esanime nelle fattezze, sentì finalmente le corde entrare in tiro. La gialla schizzò inizialmente verso l’alto per poi tendersi in modo elastico assieme alla corda rossa che si era tesa solo un attimo prima. Riuscì peraltro a trattenere con facilità l’urto, utilizzando il mezzo barcaiolo al quale, dopo l’arresto, praticò subito un’asola di bloccaggio con un contro nodo.
Tutto era fermo, tutto era immobile ora.
Era anche calato un silenzio spettrale sull’intera montagna. Istanti composti da infiniti decimi di secondo in realtà, che segnavano però un inconsueto dilatarsi del tempo senza che sembrasse accadere nulla.
Dopo pochi attimi di spaventata attesa, Gianni, facendosi coraggio, chiamò Mauro più volte con il cuore in gola, temendo che quella caduta e quell’urto così violento del dorso potesse essere stato letale per il suo compagno. Non ricevette inizialmente alcuna risposta. Lo chiamò più forte e, solo dopo pochi secondi, sentì provenire un fioco rantolio: alcune parole incomprensibili sfuggite dal dolore che gli stava pervadendo il capo e gran parte della schiena.
Gianni era rimasto immobile, autoassicurato alla parete, con tutta la muscolatura intirizzita dallo spavento, che gli aveva anche generato una momentanea sensazione di freddo diffuso in tutto il corpo, come non circolasse sangue caldo nelle arterie, ma ghiaccio fuso.
Nonostante questo stato del tutto comprensibile per quanto appena occorso, in pochi secondi di ragionata analisi aveva già deciso cosa fare per approntare una prima manovra finalizzata a raggiungere in completa sicurezza Mauro ed iniziare, una volta verificatone le reali condizioni, una serie di altre azioni in rapida successione.
Le corde all’apparenza non avevano subito lesioni alcuna e potevano essere impiegate ora separatamente per eminenti priorità correlate alle necessarie tecniche da utilizzarsi per l’autosoccorso. Era davvero l’ultimo dei problemi di Gianni pensare se fosse o meno corretto utilizzare una corda singola in quella fattispecie operativa. Si trattava di fare tutto con estrema rapidità e in modo esemplare. Era un’emergenza ed anche la corda singola in quella circostanza era del tutto sufficiente.
Mentre compiva questi gesti con estrema freddezza, con una precisione che doveva risultare per forza di cose maniacale, anche perché non poteva sbagliare il benché minimo, singolo movimento, iniziò a gridare la sua richiesta di aiuto rivolto ai pendii sottostanti e alle quinte rocciose là attorno, in quella parte della Moiazza dove numerose erano le vie alpinistiche.
Era una richiesta di aiuto chiara e definita. “Aiuto, aiuto, c’è un ferito grave. Date l’allarme al rifugio. Chiamate il Soccorso Alpino! Aiuto! Chiamate il Soccorso Alpino.”
Sperava che quelle accorate frasi uscite con quanto più fiato aveva in gola, venissero raccolte da qualche escursionista in zona o da qualche alpinista, visto che la giornata discretamente bella aveva di certo garantito che qualche cordata, arrivata magari dopo di loro in zona, si sarebbe potuta cimentare in qualche salita del gruppo. O almeno così sperava in cuor suo, lo sperava con tutte le sue forze.
Già poco dopo il secondo tentativo, un paio di persone erano state in grado di raccogliere quelle grida risuonare imperative. Una eco sinistra che per fortuna non trovò alcuna distorsione acustica a corrompere o modificare il senso della richiesta: non c’era un alito di vento e la relativa distanza intercorrente tra il chiamante e quegli alpinisti permise nuovamente di dare informazioni secche, ma ben definite e tali da non generare ambiguità su cosa era successo là in alto: “Aiuto, aiuto, c’è un ferito grave. Chiamate il Soccorso Alpino! Aiuto! Chiamate il Soccorso Alpino.”
C’era da fare una sola cosa, fare veloci, scendere al rifugio Carestiato, chiamare il Soccorso Alpino di Agordo, competente per quel territorio, dando i necessari ragguagli sul luogo dell’evento e le supposte condizioni del ferito, se il compagno fosse in grado di collaborare ed altri elementi utili per descrivere lo scenario.
Un alpinista, gravemente ferito, stava aspettando appeso alle corde e dalla correttezza delle informazioni trasferite potevano dipendere le scelte conseguenti, la velocità con cui queste trovavano attuazione: insomma a vita di una persona o la sua morte.
Gianni era certo che le indicazioni fornite a chi aveva raccolto l’allarme avrebbero garantito di muovere celermente la Stazione di Agordo. Senza concorso di un elicottero militare, che avrebbe di gran lunga agevolato le operazioni e contratto in modo significativo i tempi di intervento, stimava in una prudenziale ora e quindi minuti l’arrivo delle prime squadre alla base della parete.
Mentre ipotizzava probabili scenari determinati dalla variazione degli orari possibili, aveva rafforzato la sosta per avvicinarsi il più possibile a Mauro, cercare di stabilizzarne la schiena e verificare che non vi fossero altre sofferenze: cadendo aveva urtato anche leggermente il capo prima sulla roccia vicino al chiodo levatosi, quindi, anche più in basso e con maggior impeto.
Per questa ragione temeva che vi potesse essere un possibile trauma cranico in aggiunta a quello alla schiena che, di certo, doveva essere annoverato nella diagnosi, assieme a qualche piccola ferita lacero-contusa che non avrebbe dato preoccupazioni.
Una leggera inquietudine che andava prendendo corpo, oltre allo stato della schiena di Mauro, era anche un’altra. Quella che era sembrata una giornata solare, confermata anche dalle eccellenti previsioni meteo del giorno prima, stava in realtà trasformandosi con una certa velocità: il cielo era ripieno di nuvole disordinate che si stavano velocemente aggregando e una leggera foschia stava risalendo rapidamente dal fondo valle verso quella porzione di montagna.
Gianni, senza perdere tempo, al di là delle considerazioni sul tempo, rispetto al quale poco o addirittura nulla poteva, si era concentrato sul mettere Mauro in una posizione che fosse il più possibile antalgica, provvedendo ad effettuare alcune compressioni con delle garze sterili su delle lacerazioni presenti sul braccio e sul volto, che seguitava a sanguinare profusamente.
Quella maschera di sangue era stata però, alla fine, tutta pulita con quello che rimaneva dell’acqua della borraccia e con l’utilizzo di alcuni cerotti medicali di grande efficacia. L’ultimo sottile rigolo di sangue aveva arrestato la sua corsa sulla roccia sottostante e si era rappreso velocemente sui piccoli granellini di sabbia: sotto lo zigomo rimaneva una profonda ferita che era stata ben tamponata e velocemente incerottata.
Gianni non riusciva a capire in che termini fosse interessato il capo, ma gli sembrava che le sollecitazioni verbali fatte a Mauro registrassero risposte abbastanza sensate, anche se il continuo lamentarsi per il forte dolore accusato alla parte alta della schiena erano fonte di reale preoccupazione.
La coppia di alpinisti aveva raccolto davvero quelle grida e di certo anche le informazioni date loro: lo si capì da come prima si fossero arrestati all’improvviso mentre camminavano sul sentiero, avessero poi fatto dei passi avanti ed indietro quasi a voler localizzare la provenienza di quella voce imperiosa lassù in alto e, quindi, si fossero lanciati a capofitto in direzione del rifugio, non prima di aver anche determinato in modo abbastanza preciso la zona in cui proveniva la richiesta di soccorso, lassù tra le roccia verticale.
La chiamata di allarme, dopo due passaggi telefonici, arrivò al reperibile della Stazione del Soccorso Alpino di Agordo via radio, in quanto tutta la squadra era impegnata sin dalle prime ore del mattino con l’elicottero, in alcune fasi di addestramento e in alcune prove di carattere operativo piuttosto innovative nel gruppo della Civetta.
Il personale del soccorso alpino stava, infatti, verificando e testando ormai da qualche tempo la possibilità di effettuare dei recuperi simulati di alpinisti feriti o illesi, impiegando il gancio baricentrico dell’elicottero: quel dispositivo grazie al quale, nella comune prassi di lavoro aereo, venivano appesi materiali per il loro trasporto in quota o in zone non accessibili da altri mezzi.
Diversamente dal solito, questa volta, al gancio baricentrico, tramite una corda di lunghezza variabile che poteva raggiungere i sessanta/settanta o addirittura novanta/cento metri in caso di bisogno, veniva collegata una cesta metallica contenente un soccorritore che, facendosi avvicinare dal pilota alla parete con una serie di ordini codificati, avrebbe provveduto al recupero dell’alpinista illeso o ferito che fosse. Una metodologia quella che si stava testando in quelle ore che avrebbe permesso, pur con l’evoluzione di quelle tecniche, recuperi lungo le vie più impegnative delle Dolomiti, anche sulle pareti più verticali e strapiombanti.
Stavano provando proprio questa tipologia operativa, con un recupero simulato di un alpinista volato sulla Torre di Trieste, lungo la Via Cassin, appena sopra la seconda cengia, quando l’elicottero venne richiamato alla piazzola di coordinamento posta al Pian de le Taie, slargo di ghiaia che si trova appena sotto il Rifugio Vazzoler. Un ordine secco era stato dato al pilota e all’operatore del Soccorso Alpino per rientrare immediatamente, a causa di un’urgenza non ancora chiara in tutte le sue sfaccettature, ma che richiedeva la presenza a terra dell’intero equipaggio.
Il Capo Stazione, nel frattempo, era stato ben notiziato su cosa fosse successo dal volontario reperibile ed aveva, quindi, spiegato al pilota, appena atterrato, che avrebbe dovuto trasportare due squadre con estrema rapidità in zona Moiazza, dove un alpinista aveva subito un grave incidente dopo essere volato su una via. Non era stata ancora definita la zona di intervento con estrema precisione né tantomeno la via, ma con una prima rotazione di perlustrazione si sarebbe compreso con maggiori particolari su dove sarebbero dovuti intervenire e cosa avrebbero dovuto fare per finalizzare al meglio l’attività di soccorso. Il fatto di avere a disposizione l’elicottero era una coincidenza che non poteva che giovare grandemente all’economia delle operazioni.
In poche decine di secondi, con un ordine meticoloso che era proprio di personale che sapeva lavorare nell’emergenza, erano stati preparati alcuni zaini ricolmi di materiali vari, due sacconi gialli di corda bianca ed un sacchetto nero ricolmo di chiodi. Nel contempo erano stati predisposti gli zaini di quei volontari che avrebbero dovuto essere elitrasportati da lì a poco in zona operazioni. Erano state previste almeno tre successive rotazioni dell’elicottero da farsi in velocissima esecuzione.
La pianificazione delle varie azioni avveniva serratamente e in modo veloce, come la situazione richiedeva, ma ad un certo punto qualcosa sembrò essersi arrestato nella filiera ordinata delle attività sino a li del tutto coordinate con sapienza da Berto.
C’era stato, infatti, un breve alterco tra un paio di volontari che avevano insistito per provare il recupero in Moiazza con la stessa cesta di metallo in uso quel giorno, ed altri volontari che, invece, più prudentemente, avevano sconsigliato sin da subito di utilizzare una tecnica non ancora del tutto perfezionata, tanto più in presenza di un ferito grave da recuperare. Era intervenuto con rara durezza il Capo Stazione che aveva tacitato tutti, dando le dritte del caso per ricomporre la pur breve discussione.
Alla fine, avevano tutti compreso che la soluzione via terra, con un veloce trasporto di uomini e materiali in zona, sarebbe stata ancora una soluzione ideale e di certo molto rapida con il sostegno decisivo dell’elicottero.
Gianni però non poteva sapere e neppure lontanamente immaginare che tipo di dinamiche si stessero sviluppando solo a qualche chilometro più a nord-ovest in linea d’aria. L’assenza di una qualsiasi comunicazione con il rifugio ed anche con la base della parete lo aveva fatto protendere per la tesi logica che il soccorso alpino si sarebbe mosso nei tempi che aveva prima stimato e che, con l’arrivo di quella nuvolaglia biancastra a coprire la parete, avrebbe forse dovuto iniziare la discesa con il ferito sin dove fosse stato possibile farlo. Guadagnare tempo era determinante, bastava un lieve inconveniente alla squadra di soccorso o una manovra erronea di quelle che si accingeva a predisporre e il tutto avrebbe potuto avere pesanti ripercussioni sullo stato di salute di Mauro.
Da ottima guida quale era ed eccellente tecnico del Soccorso Alpino, aveva in realtà già allestito una serie di manovre che, una volta sistemato Mauro con lo zaino a sorreggergli la schiena, gli avrebbero permesso di procedere in una delicata discesa lungo le balze della parete, in attesa dell’arrivo della prima squadra di soccorso. Così aveva pensato e già attuato, senza ipotizzare quello che sarebbe successo da lì a poco. Aveva, allora, iniziato lentamente a calarsi con il ferito sulla schiena ben adeso al suo corpo, l’unico metodo che aveva individuato, coniugando così preminenti necessità operative con quelle altrettanto straordinarie di carattere sanitario, e che dovevano trovare il corretto bilanciamento degli interessi in gioco.
Era pertanto disceso con la calma necessaria per una trentina di metri sino sotto ad un risalto roccioso. Mauro immobile sulla schiena stringeva i denti e talvolta anche un cordino che gli era rimasto a tracolla, utilizzandolo come uno “scaccia dolore”. In presenza di un terrazzino, dove aveva trovato una piccola, ma robusta clessidra, Gianni aveva deciso di fermarsi, rafforzare quella sosta naturale scelta per la successiva calata con un altro chiodo che, in un primo momento, non voleva saperne di essere infisso.
In poche decine di secondi, dalle pareti della Torre Trieste, l’elicottero era arrivato in zona. Il ronzio creato dalle pale, quasi fastidioso in quel silenzio, era stato immediatamente avvertito da Gianni, tanto che aveva teso l’orecchio e lo sguardo nella direzione di quel rumore, trovando tutto ciò perfino strano. Poi, si era di nuovo concentrato su quello che stava facendo, ritenendo una sorta di allucinazione uditiva quella che qualche istante prima aveva ritenuto di sentire.
No, dopo qualche ulteriore secondo percepiva lo sbattere delle pale in modo del tutto nitido. Non poteva più sbagliarsi come aveva all’inizio ritenuto, era proprio un elicottero che si stava avvicinando in modo sorprendentemente veloce alla Moiazza.
Ora Gianni era pervaso dalla certezza che Mauro sarebbe stato salvato. Quel ronzio appariva ora meno fastidioso e non poteva essere stato il caso a produrlo.
L’elicottero, effettuata una ricognizione veloce, spazzolando la parete in cerca della cordata, una volta individuati i due alpinisti con una certa facilità, iniziò ad avvicinarsi alla parete con la necessaria gradualità. Si trovava ora a meno di una decina di metri dalla roccia, per completare quella che era un’attività ricognitiva di tutto punto. Gianni, allora, individuò con facilità il Lama dell’Elidolomiti, pensando che se era di fronte a lui, anzi così vicino da scorgerne i lineamenti del pilota, non poteva che essere là che per effettuare il soccorso, una volta che le squadre fossero state sbarcate nel punto più idoneo per apprestare ed iniziare le varie manovre.
Con notevole abilità il pilota fece ancora qualche rotazione poco più in alto rispetto al punto in cui si trovavano i due alpinisti. Manovre di cui Gianni non comprese appieno la motivazione. Poi, con il muso verso valle, l’elicottero si lanciò a capofitto verso la piazzola del rifugio, da poco allestita dalla stessa Stazione del Soccorso Alpino di Agordo, tra alcuni banchi di nebbia che si stavano pericolosamente addensando sulla montagna.
Gianni e Mauro erano ancora lassù, fermi e da soli, senza capire il perché di quel ritorno a valle dell’elicottero, avvenuto tra le altre cose in modo così repentino quanto anche, forse, immotivato. “Per quale ragione non aveva scaricato i soccorritori a monte della via o, al limite, alla base della parete per iniziare a procedere al loro recupero? Stava arrivando un temporale che non riuscivano a scorgere? Quali erano davvero le condizioni meteo là, attorno?” – erano i quesiti legittimi quelli che Gianni era andato ponendosi appena ripresa la calata di autosoccorso.
Quella foschia, presente solo a tratti prima sulla parete, stava ora diventando una specie di fastidioso velo appiccicoso che stava iniziando a rivestire quasi tutta la montagna. Di tanto in tanto, si avvertivano scendere sui caschi delle minute gocce di pioggia ed altre bagnavano lentamente la roccia ancora tiepida per l’irraggiamento subito sino a quel momento. Tutto ciò stava diventando un’ulteriore fonte di preoccupazione per la cordata, già pesantemente provata dalla situazione in cui si trovava.
Gianni che ne aveva anticipato le dinamiche, ora si era di nuovo rabbuiato in volto, reiterando alcune domane retoriche: “Possibile che l’elicottero fosse tornato a valle senza lasciare nessuno in parete? Cosa era successo per non effettuare quella procedura che rientrava nella logica delle cose? Era colpa della nebbia o della pioggia che iniziava a farsi sentire? C’erano problemi di natura tecnica? Cosa stava succedendo?”
Non sapeva darsi risposta alcuna o, meglio, aveva considerato la possibilità che l’elicottero prelevasse altre persone per portale successivamente in quota. Questa era in fondo l’unica soluzione o risposta da darsi. Era anche quella che lo rassicurava maggiormente.
Ora non coglieva più quel fruscio salvifico creato dal rumore del rotore principale appena poco prima, ma aveva invece cominciato a sentire una serie di tuoni che sembravano degli scoppi di mina tale era il rumore che generavano. Poco dopo il temporale nella sua più inaspettata violenza si era scatenato tutto attorno.
Foto originale del recupero: piazzola Rif. Carestiato.
Mauro stava soffrendo ed accusava un generico raffreddamento di tutto il corpo, più in particolare diceva di non sentire più bene le dita delle mani. Il più delle volte soffriva di certo facendolo in silenzio, ma di tanto in tanto però, con una voce sincopata, a tratti acuta, si lamentava delle forti pulsazioni che sentiva in testa, effetto certo del trauma subito e accusava poi, come dolore più prepotente, una sorta di coltello che gli sembrava appoggiato sulla schiena, appena sotto il collo. Ripeteva come un mantra che quella lama lo faceva impazzire, tanto da sentirla piuttosto in profondità, quasi fosse reale. Quando si sbilanciava anche solo leggermente sulla schiena di Gianni, a destra o a sinistra che fosse, sentiva l’acutizzarsi delle fitte rispetto alle quali non riusciva a trattenere un gemito diventato ormai ricorrente.
Ad un tratto, quelle che erano state tutto sommato avvisaglie già piuttosto decise, circa l’entità delle precipitazioni in corso, ma non ancora così drammatiche da generare un forte timore, mutarono improvvisamente, con un segno inequivocabile e pericolosissimo.
Un fulmine, con un boato assordante, era caduto poco più sopra rispetto alla posizione della cordata. Si era, quindi, infilato in una fessura che evidentemente partiva più in alto e lungo la quale l’acqua stava percolando abbondante, per infrangere la sua corsa e la sua potenza a pochi metri da Gianni e Mauro. La scarica, individuata con facilità dal bagliore creato, terminò di fatti a pochi metri dal termine della cengetta ove ora si trovavano e dove cautelativamente Gianni, un poco discosti, aveva provvidenzialmente riposto tutti i chiodi e moschettoni che non erano strettamente necessari per assicurarsi. Poco meno di cinque metri, non un centimetro in meno, e la scarica avrebbe potuto avere conseguenze alquanto diverse, forse tragiche per i due alpinisti.
Il tremore per il freddo, ora decisamente intenso, aveva lasciato ampio spazio al terrore che altri fulmini potessero avere maggior precisione, ma non si poteva stare fermi, tanto più in questo frangente delicatissimo.
Gianni, rincuorando il compagno con parole di incitamento continuo a non mollare, procedeva calandosi assieme a lui decimetro di corda dopo decimetro immerso totalmente nella nebbia. Piano, con la doverosa attenzione e calma evitando ogni tipo di sussulto che potesse cagionare ulteriore dolore o disassarlo completamente rispetto a quel ked ante litteram che aveva composto con lo zaino: tutto il vestiario possibile inserito al suo interno ed alcuni rami di un mugo trovato fortunosamente sulla cengia e che, allo scopo, era stato privato delle sue fronde meno lineari.
Questa soluzione, anche piuttosto ingegnosa, aveva garantito una qualche rigidità alla colonna e anche tutto sommato al capo, considerato che la patella dello zaino era molto alta e gli era andata a ricoprire anche la nuca, evitando l’iperestensione della testa all’indietro.
I minuti sembravano ore, i secondi angosciati attimi che non scorrevano mai.
Continuava a chiedersi quando sarebbe ricomparso quel dannato elicottero che da almeno venti buoni minuti era fermo nei pressi del Rif. Carestiato, dopo aver effettuato un secondo trasporto di personale e materiali dalla zona della Torre Trieste. Certo la pioggia intensa che era precipitata sino a poco tempo fa era stata un elemento che aveva rallentato di gran lunga tutto, ma non poteva essere il solo elemento a provocare quello che sembrava essere un ritardo sul possibile inizio dell’attività di soccorso.
Ad un tratto, Gianni tornò a vedere il verde della vallata e una bastionata rocciosa che ne chiudeva a sud il contorno di quella conca stupenda: il Sass de Caleda, imperioso e di nuovo illuminato da un sole, ora caldo, che stava anche asciugando la roccia, prima imbevutasi all’inverisimile per gli effetti di quell’improvviso fortunale scatenatosi solo qualche decina di minuti prima.
Con lo stesso tempismo della nebbia che si era ora diradata del tutto, dando anche una certa clemenza psicologica alla coppia, si era rivisto l’elicottero decollare ed avanzare verso la Pala del Belia, dopo aver effettuato alcune volute circolari per portarsi velocemente in quota.
Gianni, un poco intirizzito a causa dei capi di vestiario bagnati, era pronto a raccogliere qualsiasi indicazione gli fosse stata fornita dall’equipaggio e, allo scopo, aveva recuperato una ventina di metri di corda, ritenendo che potesse essere pericoloso per il flusso creato dal rotore in caso di un ulteriore avvicinamento alla parete del mezzo aereo.
“No, non è possibile” – andava dicendo Gianni dentro di sé, sconfortato da quei tempi che non sembrava comprendere appieno: l’elicottero era infatti arrivato molto basso, aveva in successione compiuto due identiche risalite della parete, ben oltre la sua posizione in cui si trovava assieme a Mauro, ed era frettolosamente di nuovo atterrato, senza far capire le intenzioni reali per l’effettuazione del recupero.
“Era passata poco meno di un’ora dal volo di Mauro, forse qualche minuto in più… L’elicottero era giunto in modo sorprendentemente veloce rispetto alle più rosee aspettative, ma poi perché aveva fatto anche queste ultime irrituali evoluzioni? Stava ancora piovendo laggiù tanto da non vedere la parete con nitidezza?”
Gianni non sapeva rispondere a quanto continuava a ripetersi, ma faticava davvero a comprendere il significato operativo di quanto stava capitando. “Perché le squadre non erano state portate sulla cengia mediana dove un hovering sarebbe stato di certo possibile e, da lì, con una calata realizzata con paio di statiche da 200 metri sarebbe stato altrettanto probabile raggiungerci?”
Appena dopo essersi posto questi angosciati interrogativi, aveva sentito in lontananza aumentare il rumore della turbina Turbomeca del Lama, motore che poteva sviluppare sino ad oltre 850 cavalli e che Gianni, appassionato di quei mezzi, conosceva a fondo. Tutto ciò stava a significare che, da li a breve, avrebbe rivisto comparire quella cellula in vetro con un’elica sopra, che aveva come coda un traliccio (nda: trave di coda) con un’altra elica di dimensioni più ridotte attaccata a lato: la descrizione di estrema sintesi di una macchina straordinaria per il lavoro aereo ed anche per il soccorso, come era, in effetti, il SA315B.
Mauro, dopo anche un paio di svenimenti registrati nel tratto appena disceso e che avevano fatto oltremodo spaventare Gianni, si era ripreso del tutto, cioè rispondeva agli stimoli che riceveva sovente e che concorrevano a limitare il senso di diffusa sofferenza, oltre a invigorire la sua resilienza.
La nebbia era stata del tutto spazzata da una leggera brezza che spirava alle loro spalle e che avrebbe favorito di certo le operazioni.
Ora, erano di nuovo fermi in spasmodica attesa. Il sole, tornato a farsi vedere come ad inizio mattinata, stava risultando determinante anche per asciugare un poco i corpi dei due alpinisti, soprattutto quello di Mauro che, sottoposto prima all’azione tambureggiante della pioggia, sarebbe potuto andare anche incontro ad un’ipotermia severa, generata dallo stato in cui versava ed accentuata dalla lunga esposizione al freddo.
Gianni non poteva credere a quanto stava prima solo vagamente immaginando, non vedendo ancora in modo nitido da così lontano. Successivamente, una volta che l’elicottero iniziò ad avvicinarsi sempre più alla Pala del Belia, scorse chiaramente quella scena che solo con l’azione della fantasia poteva supporre.
Un brivido lo scosse quando ebbe contezza definitiva di quello che stava avvenendo più in basso, ancora poco sopra il rifugio Carestiato: ad oltre cinquanta metri dalla pancia dell’elicottero erano state appese due persone attraverso una corda posizionata per l’appunto sul gancio baricentrico che le sosteneva in aria, associata ad un’altra corda di sicurezza fatta passare nella cellula dello stesso elicottero. Quel dispositivo di solito usato per il trasporto di materiale, di reti contenenti a loro volta colli di qualsiasi genere o nel quale veniva appesa la benna del cemento per getti di paramassi o plinti dell’alta tensione in quota, stava ora trasportando due volontari del Soccorso Alpino.
“Incredibile, incredibile”, ripeteva a voce alta Gianni che, in questo modo, aveva anche distratto l’amico incapace di cogliere appieno le dinamiche in corso di svolgimento (nda: e delle quali solo qualche anno più tardi ne sarebbe diventato abile attuatore, diventando uno dei migliori tecnici di elisoccorso della zona).
In quel momento, si potevano scorgere in modo netto, le gambe che annaspavano nell’aria quasi a trovare un qualche, improbabile appoggio e le braccia protese all’indietro a voler invece controbilanciare la velocità di avanzamento dell’elicottero. Stavano salendo molto più in basso di dove si trovava assieme a Mauro, un rateo di salita insolitamente lento che aveva però uno scopo evidente.
Gianni aveva esattamente ricondotto a logica pura sia il motivo delle precedenti rotazioni, effettuale in realtà dal pilota non per sfizio, ma solo per tarare le quote e valutare l’andamento della parete per l’intervento che l’elicottero stava ora esperendo, sia su cosa avrebbe dovuto fare per garantire l’estrema sicurezza di quello che sarebbe stato l’attimo più delicato della giornata. Da quest’ultima azione dipendeva da una parte la stessa salvezza di Mauro, dall’altra la necessità di evitare qualsiasi criticità all’elicottero e al suo equipaggio, soccorritori compresi.
Stava nel frattempo aumentando la sensazione di inadeguatezza, quella percezione legata al fatto di non essere ancora pronto per quel momento. Avvertiva gli istanti farsi angoscianti, ciò non di meno anticipava mentalmente quello che avrebbe dovuto fare per una sola volta senza possibilità di replica o di errore: non appena i soccorritori appesi al gancio dell’elicottero fossero arrivati alla sua stessa identica quota sino a toccarsi letteralmente, avrebbe dovuto abbandonare le corde a cui era vincolato Mauro e lasciarlo librare nell’aria, ora sotto la loro diretta responsabilità.
Il brusio delle pale ora si era fatto decisamente più forte e Gianni doveva agire con grande attenzione e rapidità, ma attuare con pari attenzione gli spostamenti più adeguati a favorire la postura di Mauro: lo aveva immediatamente traslato di fronte a sé ed appoggiandolo alla roccia con la necessaria delicatezza, predisponendolo per la manovra finale.
In seguito, con una sequenza ordinata, ma assai rapida, lo aveva svincolato anche da alcuni cordini e da un paio di fettucce tubolari che gli erano servite per le precedenti operazioni di calata. Ora Mauro con il busto appoggiato alla roccia in quel punto molto gialla, era solo legato a Gianni con un lungo spezzone ci cordino.
Lo sbattere delle pale si era fatto ancora più forte, al limite del fastidio anche per gli uditi meno sensibili. L’elicottero era, infatti, sempre più vicino alla parete, stava avvicinandosi dal basso, salendo metro dopo metro verso la quota verificata in precedenza. Ancora una manciata di secondi e avrebbe visto comparire i due soccorritori in modo netto da individuarne anche forse la marca del casco.
Quegli attimi erano già trascorsi in realtà e Gianni riusciva perfino a scorgere i lineamenti dei due soccorritori di Agordo. Tratti famigliari, quasi cari quelli che stavano avanzando ormai a meno di una quindicina di metri da dove si trovava fermo ormai da almeno due minuti. Volti conosciuti da tempo quelli di Gigi e Walter e che, ciò nonostante, non riuscivano a comunicare alcunché a causa del forte frastuono che ormai aveva pervaso quella parte di montagna.
Tutti e due i volontari, appena diventati Guide tra l’altro, avevano entrambi una particolare ed univoca tensione del viso, oltre che un’identica mimica facciale. Gridavano entrambi con lo stesso identico labiale, non si capiva però cosa stessero cercando di comunicare.
Gianni, in assenza evidente di comunicazioni radio, negli attimi concessigli dalla rapida evoluzione della manovra in atto, si sforzava con tutto sé stesso di comprendere cosa volessero esprimere con quelle autentiche distorsioni della muscolatura del viso, ma non riusciva a comprendere davvero nulla del labiale.
Poi, uno dei due, fece un segno inequivocabile: il dito ed il medio a muoversi con grande velocità assieme, con tutte le altre dita della mano socchiuse. Lo fece per più volte, era il segno distintivo ed inequivocabile della forbice, ovvero della necessità che Mauro una volta raggiunto dai due soccorritori non restasse agganciato contemporaneamente a Gianni e ai soccorritori che, a loro volta, erano vincolati al mezzo aereo.
Erano concessi due o tre secondi la massimo di vincolo autorizzato dal pilota, poiché tenere vincolato l’elicottero alla parete poteva diventare esperienza tragica per tutti, anche in caso di un solo colpo di vento sufficiente a spostare l’elicottero di pochi centimetri dalla posizione dell’hovering fuori effetto suolo che stava sostenendo il pilota.
Gianni, che aveva già anticipato questa criticità, fece a sua volta un segno un paio di volte con il pollice alzato della mano destra, mentre con l’altra sosteneva Mauro, incerto come mai nel suo stare in posizione eretta, come ora era costretto a fare, in assenza di una qualsiasi terrazzo o cengia rocciosa dove poter appoggiarsi prono o, indifferentemente, supino.
Erano in questo preciso istante uno davanti all’altro, i due soccorritori da una parte e Mauro e Gianni dall’altra, ma non c’era proprio tempo per alcun convenevole: i decimi di secondo erano l’unico metro permesso lassù, in parete aperta e con il vuoto sottostante a sostenere solo l’aria e la speranza che tutto andasse secondo necessità ed auspici.
Le sei mani operarono alcune manovre con un’inconsueta rapidità, lo svincolo pronto per lasciare solo un pezzo di cordino in parete, ricordo di quella giornata dolorosa, ma al contempo segno di quanto era operativamente successo in quelle decine di minuti che passarono dal volo di Mauro al recupero finale del suo compagno avvenuto sotto lo strapiombo che entrambi avevano sopra di loro e del quale Gianni si era solo ora avveduto.
Il ronzio finale, ora però alquanto dolce, delle pale che sbattono l’aria cristallina era quello che rimaneva di quella straordinaria manovra, assieme alle esili ombre ormai controluce dei soccorritori e di Mauro posto al sicuro tra i loro corpi. Appena sopra i loro, ad oltre sessanta metri, ormai sfumato dalla profondità dell’orizzonte, gli accompagnava quello strano uccello di vetro e lamiere tenuti assieme da piccoli rivetti, quello strano volatile dal cuore piccolo, ma potente che stava accompagnando Mauro versa la salvezza.
Foto originale del recupero: il recupero.
L’elicottero, infatti, già poco dopo aver depositato Mauro nei pressi della piazzola del Rifugio ed era risalito prontamente per riprendere Gianni con la stessa tecnica, salvo che ora, appeso al gancio baricentrico, c’era solo un volontario, non si sapeva ancora se si trattasse di Gigi o di Walter.
Le corde, pur in modo un poco disordinato, erano state avvolte e ben strette per evitare che asole fastidiose potessero uscire all’improvviso creando situazioni di pericolo, lo zaino e tutti materiali pur con una certa e comprensibile casualità erano stati assemblati per garantire l’effettuazione di un’unica traslazione.
Era bastata un’occhiata di Gigi, un velocissimo “clack clack” dei moschettoni per far si che i due fossero uniti ed agganciati assieme in poco più che in un batter d’occhio. Il pilota avvisato allora via radio con un ordine convenzionale si era alzato qualche metro per poi girarsi su sé stesso ed indirizzarsi di nuovo verso l’area di atterraggio.
Gianni non aveva fatto tempo a riflettere su come sarebbe stato posizionato a terra, che i volontari del Soccorso Alpino presenti in piazzola avevano già provveduto a recuperare le corde che si sgonfiavano della loro tensione a mano mano che l’elicottero si abbassava sulla verticale della piazzola. Lo aspettavano a terra orgogliosi di quella impeccabile serie di felici manovre che di fatto avevano garantito un soccorso eccezionale.
Emergeva allora l’autentico senso di squadra, cioè la capacità di operare assieme non come singoli elementi o singole individualità: un poco come le dita di una mano che prese singolarmente sono piuttosto fragili, ma assieme possono diventare un pugno.
Una volta che anche l’elicottero si era appoggiato a terra, Gianni si complimentò con l’emozione tradita dalla voce con il pilota. Renzo, un simpatico ricciolino, che aveva dimostrato precisione assoluta in ogni singola sessione intervenuta nel recupero e che gli aveva fatto intendere che l’estrema coordinazione era stato il frutto di quel successo corale formato da tecniche e da tempi azzeccati.
Poi, aveva abbracciato Gigi e Walter con i quali aveva fatto assieme parte del corso guide e per i quali nutriva oltre all’odierna riconoscenza, un’indubbia simpatia, pur avendo i due caratteri assai diversi: uno burbero, ma fondamentalmente buono, l’altro solare ed ugualmente amabile.
Nel frattempo il medico della Stazione di Agordo, sopraggiunto via terra sul luogo dell’evento assieme ad alcuni volontari già sul posto, stava provvedendo a controllare le generali condizioni di Mauro e a predisporre una migliore immobilizzazione della schiena e del collo. Alcuni grandi cerotti colorati erano andati a sostituire quelli inzuppati di sangue e sudore che sino allora avevano comunque provveduto a fare il loro buon servizio.
Dopo queste attività sanitarie, Mauro era stato adagiato in una barella inserita poi a stento in completa diagonale rispetto tre sedili posti dietro al pilota.
Ora si poteva dar seguito al suo trasporto al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile più vicino che era quello di Agordo.
Gianni in quelle fasi, peraltro molto concitate, aveva tenuto per qualche attimo la mano di Mauro, inevitabilmente provato dal dolore e dalla fatica. Riuscendo a trasferirgli calore e fiducia lo aveva di fatto acquietato, ancor prima che l’antidolorifico praticatogli dal medico iniziasse a fare il proprio desiderato effetto. Nonostante lo stato complessivo non gli permettesse grandi eloqui, Mauro aveva trovato la forza per ringraziare con alcuni gesti fatti peraltro un poco a caso qualche volontario e per dire a Gianni con un filo di voce sofferente: “No penseè, ma ghe l’avon fatta, Gianni. Grazie a ti e ai boce qua atorno!”
Gianni si era concesso al rifugio solo un te, addentando, tra un sorso ed un altro, una mela trovata mezza schiacciata nella patella dello zaino ed alcuni cubetti di cioccolata frantumata. Durante questa frugale, ma necessaria consumazione, utile per riempire un po’ lo stomaco che si stava lentamente liberando dell’ansia accumulata, aveva riassunto al gestore le cause del volo in parete del suo compagno e le iniziali condizioni di Mauro, oltre ovviamente alla rocambolesca modalità con cui entrambi erano stati recuperati. Anch’esso era membro del Soccorso Alpino e, nelle fasi inziali, aveva coordinato le varie chiamate radio e telefoniche, risultando determinante per la qualità delle informazioni traferite ai soccorritori.
Dopo quel resoconto, Gianni si sentiva del tutto svuotato: un sacchetto privo del proprio contenuto che tendeva in quei momenti a piegarsi su sé stesso. La tensione dei minuti prima era del tutto scomparsa, lasciando spazio ad una strana sensazione di stanchezza che mai aveva avvertito, né arrampicando né effettuando attività di soccorso con la propria Stazione. Questa volta era davvero diverso, del tutto diverso.
Con questo stato d’animo Gianni era uscito dal Carestiato, iniziando a far entrare con grandi inspirazioni quanta più aria poteva nei polmoni, come per fare uscire l’aria pesante respirata in quella giornata.
Sulla panca in legno posta a ridosso del muro che guardava la parete dove erano saliti, aveva successivamente riordinato tutti i suoi materiali e quelli di Mauro. Caricandosi poi i due zaini in modo equilibrato sulla schiena, aveva cominciato a scendere la mulattiera in senso contrario al mattino, non senza prima aver gettato uno sguardo carico di rabbia e disincanto al punto in cui si era consumata quella mattinata di terrore, ma anche dove intuizione e tecnica erano state in qualche modo sublimate in un eccellente risultato finale.
Quel fiero alpinista, eccellente soccorritore era arrivato al parcheggio del Passo Duran con lo stesso identico passo del mattino, veloce e sicuro. Sulla schiena però sentiva, oltre al peso dello zaino dell’amico, quello di una sofferenza ora dilagante. Non si sentiva responsabile per la caduta dell’amico fraterno, razionalmente faceva parte dei rischi reciprocamente assunti, ma accusava il peso di aver magari fatto delle scelte erronee nell’esecuzione delle varie manovre di soccorso e di non essersi del tutto avveduto dello strapiombo che si trovava sulla verticale del recupero. Quest’ultimo era di fatto il motivo finale per cui era stato utilizzato il gancio baricentrico e non erano state scaricate le squadre in parete.
Analizzava allora mentalmente le sequenze delle manovre, ma, alla fine, aveva dovuto ammettere a sé stesso che non poteva colpevolizzarsi per essersi naturalmente spostato sotto quel risalto roccioso, quello stesso risalto aggettante che senza l’ausilio del gancio baricentrico avrebbe di certo generato problemi anche ad un recupero con un elicottero militare dotato di verricello.
“D’altro canto – ragionava con lucidità – se la nebbia non si fosse diradata anche l’elicottero non avrebbe potuto finalizzare l’intervento ed in ogni caso, non era nelle procedure di prassi adottate che, in presenza di personale particolarmente esperto e qualificato, si aspettasse l’arrivo dei soccorsi senza nulla predisporre, ovvero senza iniziare a salvarsi da soli, tanto più considerata proprio quella foschia che stava iniziando ad avvolgere la parete e che avrebbe potuto bloccarli là per ore intere.”
Con questo ultima, oggettiva valutazione, che non lasciava spazio a congetture e supposizioni troppo facili da farsi a posteriori, Gianni si era leggermente accovacciato per recuperare le chiavi della macchina di Mauro, lasciate come sempre era avvenuto sul mollettone della ruota anteriore sinistra. Chiuso il bagagliaio, dopo aver risposto entrambi gli zaini con la consueta cura, aveva dato un ultimo compassato sguardo alla montagna avviando presto il motore. Respirando poi nuovamente in profondità, prima di inserire la marcia e di avviarsi verso l’Ospedale di Agordo, aveva proferito solo un misterioso “grazie”.
Non sappiamo a tutt’oggi quel “grazie” fosse stato in qualche modo di origine religiosa o, forse, più probabilmente fosse stato di provenienza laica, una sorta di ringraziamento magari all’elicottero e a quel provvidenziale gancio baricentrico calato dal cielo da un pilota speciale e da uomini silenziosi, ma straordinari come quelli del Soccorso Alpino di Agordo.
Poco o nulla importa oggi saperlo, ma interessa ricordare quell’azione di soccorso come tra le più audaci compiute da sempre nell’ambito del soccorso alpino ed elisoccorso bellunese per portare sollievo ad una persona gravemente ferita, per affermare che la comunità del soccorso era attiva ed oltremodo presente nel garantire soluzioni tecniche del tutto originali ed innovative con il comune denominatore della sicurezza e della passione che, alla fine, muove sempre le persone e le risorse migliori.
Nota sul racconto
Questo raccontato, pur con qualche tratto della verosimiglianza per alcune descrizioni e dinamiche dei fatti, che risentono gioco forza della vivacità della fantasia, è un fatto di cronaca accaduto realmente il 15 luglio 1984 sulla Via del Beato (1982, Dorotei – Fulcis). I fatti narrati con il tragico volo di Mauro e le altre sequenze rappresentate e, in particolare, il recupero avvenuto grazie alla fortuita e fortunata circostanza che vedeva impegnata la Stazione CNSAS di Agordo in una esercitazione sulla vicina Torre Trieste, fattore decisivo che permise un soccorso rapido, concluso in un paio di decine di minuti – avvennero nelle modalità descritte.
Ma va doverosamente segnalato in questa sezione che quell’attività di soccorso venne positivamente conclusa in così poco tempo solo, grazie alla straordinaria intuizione e capacità degli uomini del Soccorso Alpino di Agordo che, con una manovra mai provata in Dolomiti, utilizzando 60 metri di gancio baricentrico dell’elicottero, un “Lama”, riuscirono ad effettuare con notevole rapidità il recupero di Mauro sotto quelle rocce strapiombanti che, con altre procedure, come l’utilizzo del verricello, non sarebbero state possibili e, via terra, avrebbero allungato i tempi a dismisura.
Tutte queste favorevoli, ma anche ricercate situazioni, permisero l’immediata ospedalizzazione al Pronto Soccorso di Agordo di Mauro, diminuendo sensibilmente i tempi della sua stabilizzazione che, con un recupero esclusivamente via terra, come in parte già detto, sarebbero stati molto più critica e sfavorevole in relazione ad esiti invalidanti che avrebbe potuto subire, oltre all’esposizione al rischio delle squadre coinvolte.
A Mauro, al di là delle fastidiose ferite lacero contuse che erano i segni più evidenti della battaglia condotta con la parete, era stato diagnosticato un trauma cranico di natura commotiva e la frattura composta di due vertebre cervicali. Infatti, dall’Ospedale di Agordo, già nella serata del 15 luglio 1984, era stato portato a quello di Belluno dove era stato sottoposto ad ulteriori accertamenti diagnostici che avevano rilevato la delicatezza del trauma alla colonna.
In ragione del fatto che quelle fratture avrebbero potuto avere conseguenze estremamente gravi, come la tetraplegia – che è la paralisi di tutti e quattro gli arti causata dalla lesione del midollo spinale, vale la pena ricordare che la degenza, pur lunga, non produsse eventi clinici particolari, anzi il recupero avvenne in modo ottimale in poco più di due mesi, lasciando solo una strana postura del collo che, in alcune occasioni, quando Mauro camminava, tendeva a flettersi leggermente sulla destra.
Nota storica
Anche questa esperienza concorse a far si che la tecnica del gancio baricentrico, poi doppio gancio baricentrico, con uno di sicurezza, venisse sempre più utilizzata in Dolomiti per risolvere situazioni in cui il solo verricello (va ricordato in questo senso che negli anni ’80 ed inizio anni ‘90 il verricello in dotazione agli elicotteri afferenti alla sanità, poi Servizio di urgenza ed emergenza medica 118, non aveva lunghezze performanti e portate al limite delle due persone verricellabili) non sarebbe stato sufficiente proprio a causa della verticalità delle pareti e della presenza lungo molte vie di strapiombi anche molto pronunciati, di tetti e, in genere, a causa della stessa conformità ed andamento della roccia.
Non è un caso che, nel periodo compreso tra il 1982 ed il 1984, il Soccorso Alpino Bellunese e l’Elidolomiti, ditta tutta Bellunese, iniziarono una serie di importanti sperimentazioni tecnico-operative con un elicottero SA315B, più noto come Lama. Agli inizi degli anni ’80, le Stazioni CNSAS Bellunese, sulle ali dell’entusiasmo offerto dalle prime sperimentazioni con l’Aeronautica Militare e con l’Esercito, iniziarono, infatti, ad effettuare proprio con la storica ditta bellunese di volo aereo costituita nel 1982, alcune prove addestrative di notevole spessore tecnico. Queste prove e le relative procedure, assunsero, già a breve, le caratteristiche di vero e proprio studio su modalità operative legate al soccorso tecnico in montagna, proprio muovendo dal principio che le tecniche del lavoro aereo fossero, con i dovuti accorgimenti, applicabili ai più complessi interventi in montagna.
Se questo percorso è stato possibile lo si deve anche a Natalino Menegus, forte alpinista di San Vito di Cadore e fondatore dell’Elidolomiti con altri soci, che condivise da subito le varie iniziative proposte dal CNSAS e coordinate da Angelo Devich, allora Delegato, intravedendone gli effetti strategici per il soccorso in montagna ed in genere per il soccorso primario in tutto il territorio della provincia di Belluno.
Foto originale del recupero: piazzola Rif. Carestiato.
Renzo Rossi, pilota che aveva seguito in prima persona gli addestramenti anche nelle vesti di Direttore Operativo dell’Elidolomiti, qualche anno fa ha affermato al proposito che “quelle prove effettuate più volte, con ogni sorta di simulazione possibile, diventarono presto dei capisaldi operativi fondamentali anche in Italia e non solo relegati alle Dolomiti.”
Questo periodo denso di studio, progettazione e verifica operativa delle procedure adottate trovò il proprio naturale, ma non scontato suggello, tra il 1993 ed il 1994.
L’8 novembre del 1994 venne, infatti, licenziata la Normativa S.A.R. per le operazioni di elisoccorso in montagna dd.41/6821/M.3E” (nda: successivamente fatta modificare sempre dal CNSAS nl marzo dell’anno successivo).
Era maturata nella storia dell’Elisoccorso Bellunese una delle esperienze forse più preziose, i cui attori erano come detto il Soccorso Alpino e l’Elidolomiti, ai quali si era aggiunto il Suem 118. Questa esperienza di notevole portata aveva determinato di fatto e di diritto nel campo delle normative del settore una tappa basilare per la futura evoluzione dell’elisoccorso a livello nazionale.
Fondamentale ed incisiva era stata in questo senso l’azione di Matteo Fiori, da poco tempo subentrato a Devich come Presidente Regionale del CNSAS che, insieme al Com. te Goljahani, neo Direttore Operativo dell’Elidolomiti, era riuscito ad avviare un concreto rapporto di collaborazione con i dirigenti di Civilavia (nda: poi Enac con il D.Lgs. 25 luglio 1997, n. 250).
Nella normativa dd. 41/6821/M.3E vengono definite le nuove linee guida nella disciplina del soccorso aereo in montagna e nei programmi di addestramento, con particolare riferimento all’utilizzo del verricello e del gancio baricentrico. Atti di assoluto rilievo che lo stesso Enac assunse quali programmi di addestramento per emanare anche le disposizioni nazionali in materia di navigazione aerea per le operazioni di elisoccorso in montagna (S.A.R.). Atti che per tutto il CNSAS hanno rappresentato una pietra miliare sulla quale realizzare i moderni servizi di elisoccorso e rispetto alla quale essere in qualche modo dominus, per quanto di competenza, di quei servizi.
- Gianni Sitta – G.A. già appartenete alla Stazione CNSAS di Belluno, già Tecnico di elisoccorso e Direttore della Scuola Tecnici.
- Mauro Piccolin (†) – Già Capo Stazione di Belluno e Tecnico di elisoccorso.
- Gigi De Nardin – G.A. già appartenete alla Stazione CNSAS di Agordo e Canazei, già Tecnico di elisoccorso e Istruttore Nazionale Tecnici.
- Walter Levis – G.A. già appartenete alla Stazione CNSAS di Agordo e Istruttore Nazionale Unità Cinofile da Valanga.
- Roberto “Berto” Lagunaz Già Capo Stazione di Agordo e socio co-fondatore Elidolomiti.
- Renzo Rossi – Direttore Operativo Elidolomiti e Com. te Goljahani Ghassem Direttore Operativo Elidolomiti.
- Angelo Devich (†) – Gia Delegato e Presidente CNSAS Veneto.
- Matteo Fiori (†) – Già Presidente CNSAS Veneto.
Fabio Bristot - Rufus