Berto già da diverso tempo sollecitava il gruppo a farsi venire una qualche idea, magari una di quelle davvero sconvolgenti che sono, alla fine, una vera e propria trasformazione dei comuni modi di pensare ed agire.
Insomma, un’idea autentica per uscire da quelle logiche che stavano ormai trasformando la nostra passione per l’arrampicata in una manierata consuetudine o, per meglio dire, in uno schema tradizionale, privo della necessaria fantasia per continuare a provare quel flusso di emozioni forti, intense che tutti noi cercavamo invece arrampicando.
Ogni salita, infatti, era correlata a dei clichés trasformatisi alla fine in percorsi abbastanza stereotipati: scelta generica del gruppo e della via (analisi relazione salita e discesa, qualche fotocopia), consueta alzataccia (possibilmente dopo una serata lunga ed energica contermine a qualche bancone…), sentiero percorso velocemente (guai se quello privo del necessario dislivello), zoccolo (quando mai se ne sono visti di sani… quindi, sempre piuttosto friabile), via classica secca (dove non manca nulla, compresa la paura), talvolta qualche doppia per il ritorno (ovviamente con cordini marci alle soste) e, poi, nell’ordine: festeggiamenti ciclopici, giramenti di testa, alla fine casetta… con zaino di scuse pronte per rabbonire i genitori ormai rappresi nell’ansia di saperti ancora qua.
L’idea alla fine era arrivata, esplosiva quanto imperfetta – come vedremo – nella sua potenzialità di trasformarsi in un qualcosa di percorribile, quindi di concreto e reale.
Ora, i ricordi, dopo quasi 35 anni, non sono più così nitidi, ma va per la maggiore la tesi secondo cui sarebbe stato lo stesso Berto ad incaricare Rufus (nda: così risparmiava anche questa volta qualcosa…) di acquistare un qualche libro esotico, quelli di storie di catene montuose, storie di uomini ed immagini di quelle stesse catene montuose, un libro possibilmente sulla Patagonia, si indiscutibilmente un qualcosa da leggere su quelle terre dell’altro emisfero.
Già questa buffa e singolare partenza faceva comprendere quale fosse in realtà la consapevolezza di cosa rappresentasse quella magica terra per tutti noi. Quella distesa di ghiacci eterni interrotti qua e là da guardinghe torri solitarie di granito rosa e nocciola a seconda dell’inclinazione del sole; quel mare sterminato che crea la pampa verde o gialla a seconda della stagione, puntinata qua e là da rare alberature; quei cieli turchesi, sbattuti da venti indomabili e dalle tempeste più violente… restavano per noi elementi, infatti, densi di mistero, anche se non incutevano necessariamente paura.
Fatto sta che, di lì a poco, il gruppo si trovò una sera davvero attorno al famoso libro nel frattempo acquistato da Rufus: uno dei pochi volumi sulla Patagonia (nda: Patagonia – Terra magica per viaggiatori e alpinisti di Gino Buscaini e Silvia Metzeltin – Ed. Stella Alpina) che ne descriveva la storia alpinistica recente, associata a qualche informazione di carattere generico.
Era stato scelto come luogo dell’appuntamento per la sua consultazione un pub noto con il nome della proprietaria “da Simonetta”, locale ora chiuso da tempo, ma che, allora, offriva una vasta gamma e scelta di buone birre europee, oltre a succulenti panini con salse e condimenti di ogni tipo.
Una serata, pare di venerdì sera, a questo punto la memoria diventa davvero incerta, già ad ora avanzata i quattro amici si erano trovati finalmente seduti. Anche Draculino (Marco Zago), arrivato tardivo per una delle sue ben imprecisate scuse, aveva trovato posto sulla panca che ancora non veniva spostata (come sarebbe stato ora) per le pance travolgenti di chi ora ricorda quanto allora successe.
Per facilitare la lettura del volume che aveva ormai polarizzato l’attenzione morbosa dei presenti, i quattro si erano disposti secondo un ordine piuttosto originale: tutti sul lato di una panca, di fronte al bancone il legno scuro, in modo che, sfogliando via via le pagine, a tutti fossero chiare diciture, immagini ed ogni altra notizia volta a capire cosa fosse questa Patagonia.
Le pagine del libro erano state velocemente consumate tra le volute di fumo delle ultime Marlboro che Piccolomini (Mauro Piccolin) stizzito cercava di evitare (due dei quattro fumavano piuttosto voracemente) e gli schizzi della schiuma dolce della Leffe chiara, che aveva nel frattempo disinibito i freni più diversi sulle ambizioni e sui sogni del gruppo.
Solo di fronte a quelle che i quattro amici conoscevano di fama per essere le montagne più celebri (nda: poche invero, Cerro Torre, Fitz Roy, Torri del Paine e poche altre insieme allo Hielo Continental), gli sguardi si soffermavano alla ricerca di qualche relazione tecnica o per apprendere il nome dei primi salitori o esploratori della zona. La cosa buffa, al limite della commedia, era che davvero nessuno dei quattro sapeva se la Patagonia fosse alta o bassa, lunga o stretta …
Forse fu questo cocktail d’insipienza e giovanile incoscienza che fece fermare lo sguardo di Roberto Canzan “Berto”, Mauro Piccolin “Piccolomini”, Marco Zago “Draculino” e Fabio Bristot “Rufus” su un muro verticale, giallo da incutere tremore anche solo sulla carta, alto non si sa quanto (nda: tutt’ora non è stato ancora esattamente quotato) che sembrava non avere avuto tante visite, quindi anche forse inespugnabile, se si escludevano alcuni tentativi effettuati dal grande Armando Aste e da Jim Bridwell (nda: proprio il grande alpinista di Rovereto offrirà in seguito consigli davvero utili alla spedizione).
Idea eccelsa, proposta sublime, ma come? Non era proprio una cima banale, una domenicale passeggiata sulle pale erbose del Serva, sembrava piuttosto “niente più che un’idea”, come lo sono quasi tutte del resto, lontana e forse irrealizzabile, che stava ormai divorando tutti per le incognite presenti e per l’immaginazione che forse era corsa già troppo lontana assieme ai rigurgiti provocati dalla quarta o quinta Leffe e dalle patate, piuttosto unte quella sera, ingurgitate al pari delle birre con rara ingordigia.
Ecco allora che già si alternavano improbabili itinerari su altrettanto improbabili placche, possibili sviluppi, difficoltà … ma c’era un particolare non trascurabile che si richiamava ai tratti della commedia prima richiamata: i quattro ancora non sapevano ancora letteralmente neppure se dovessero prendere una nave o un aereo, se si parlasse di Patagonia cilena o argnetina.
All’improvviso, dopo che le birre avevano esaurito il loro temporaneo effetto vasodilatatore, la postura del viso di tutti i quattro era del tutto variata in una smorfia d’impotenza che segnava l’umorismo sino a prima garante del gruppo… Non passarono, infatti, che pochi istanti da questo mutato aspetto, quando uno di loro si portò velocemente verso il banco, quasi a simulare un estremo gesto di generosità nell’offrire i tanti giri consumati.
Invece, l’intuizione era stata davvero geniale. Nessun giro di birre effettivamente pagato, anche perché si sarebbe dovuto ipotecare la macchina, ma la richiesta a Simonetta se fosse davvero la sorella di Bruno De Donà “Bareta”, noto e fortissimo alpinista bellunese, con un’attività curriculare invidiabile ai più e con alcune esperienze già maturate in quelle terre lontane.
A risposta affermativa, già dopo poche settimane la comitiva, Rufus escluso, poiché con il busto di gesso dal mento al sedere era immobilizzato a letto (nda: il 17 giugno si era fratturato la dodicesima dorsale in palestra di arrampicata al Mas di sedico), si era recata da Bareta a richiedere informazioni sulla Patagonia. Un fare ingenuo che faceva quasi tenerezza quello del gruppo che, grazie all’inaspettata e subitanea richiesta di Bareta di fare parte della spedizione, aveva invece trovato il valore aggiunto necessario. Anzi, lo si può affermare con cognizione di causa ed esperienza, il gruppo aveva trovalo l’elemento risolutore.
Era ormai ottobre inoltrato, quella stagione in cui il rame lamina le foglie dei faggi nei boschi ormai stanchi e gran parte della programmazione pianificata era stata puntualmente effettuata. Erano state vendute all’incirca 5000 cartoline per garantirsi una base minima di sponsorizzazione e raccolti altri piccoli fondi, il gruppo aveva pressoché raggiunto tutti gli obiettivi più importanti, tra i quali quelli legati alla predisposizione dell’attrezzatura e delle dotazioni di squadra, si era consolidato ormai nei rapporti e nelle dinamiche che avevano visto, alla fine, far parte dello stesso anche ovviamente Bareta e la propria compagna, Mirella Scola, e Sandro Dal Mas.
La cima della Fortaleza, grazie a quella tensione di fasce muscolari e sintesi poderosa di nervi e volontà che Bruno aveva rappresentato in quei 44 giorni di sudore e graffi, paura e tensione, risa e gioia concentrata, era stata raggiunta il 27 novembre 2009 dopo svariati tentativi vanificati dall’inclemenza del tempo e del vento.
La via dedicata a Dino Buzzati
Belluno 22 ottobre – 13 dicembre
Vetta raggiunta alle ore 21.50 del 27 novembre 1989 dopo 13 tentativi