… Don Claudio aveva alzato nuovamente il volto alla luna che rischiarava il cuore delle Dolomiti come solo altre rare volte era successo: gli occhi spalancati per impregnarsi di quella luce pura e portarne un po’ in città per fronteggiare i periodi più bui.
Sorridendo a tanta bellezza, aveva accennato ad un primo lento movimento con le punte degli sci rivolte a valle, affondando le lamine nella coltre bianca, leggermente increspata dai tanti depositi di neve ventata.
Con fare sempre più sinuoso, aveva iniziato poi ad effettuare una serie di serpentine regolari in rapida successione geometrica, sempre più accentuate e veloci, tra il bagliore del manto candido e la sua stessa ombra, quasi a giocare in uno scambio veloce e continuo di chiaro e scuro.
Giù con una serpentina ora più stretta, giù a poche decine di metri dalla cresta che delimita il versante nord-ovest del monte, con la necessaria eleganza dei movimenti che non potevano che essere supportati da un’ottima tecnica per risultare così perfetti: Don Claudio trovava un continuo bilanciamento di equilibri e forze, assai raro nel vedersi e proprio solo di uno sciatore provetto.
Stava effettuando con padronanza una linea sinuosa senza soluzione di continuità: giù con decisione, senza sbavature o incertezze, creando un lieve ricamo sulla neve, molto suggestivo a vedersi.
Ancor giù, sino ad avvertire una sensazione, poi diventata uno stupore inatteso: un rumore, prima cupo e rauco, quasi dimesso, poi esplosivo e rabbioso, senza più alcun ritegno. Un boato scaturito all’improvviso e in modo inaspettato dalla profondità del manto di neve candida, lasciata appena dietro di sé.
Don Claudio aveva udito e compreso nella sua drammatica portata quel rumore, anticipato solo da una vibrazione molto simile a un sibilo, già avvertito in altre due passate occasioni, quando, solo per fortuite circostanze, non si era poi generato il collasso della massa nevosa.
Pochi istanti, forse qualcuno appena per comprendere il senso di un evento reale che si andava tratteggiando e, a breve, innescando nella sua potenza. Un attimo, nel corso del quale aveva superato il delicato equilibrio, dopo il quale non c’era più alcuna possibilità di tornare indietro nel tempo, né di arrestare il moto della neve, anzi della valanga stessa: questo era il nome con la quale doveva essere chiamato correttamente quell’evento sciagurato, che lui stesso aveva inavvertitamente provocato nel cambio di pendenza.
Il suono appena prima avvertito da Don Claudio, si era trasformato in pochi decimi di secondo, diventando un tonfo incontrollato di tutti gli elementi in gioco: masse bianche che si fronteggiavano sulle diverse superfici del pendio, zolle di terreno scoperte o scalzate e immediatamente soffocate di nuovo dalla neve inarrestabile, lastroni enormi che spezzavano e spazzavano il crinale, cumuli spumeggianti e vorticosi destinati ormai a portare tutto e tutti inesorabilmente verso il basso, senza mediazioni possibili.
Don Claudio indifeso come mai ad aspettare inesorabile l’istante fatale. Ma quanti istanti avrebbe dovuto contare prima della fine? Oppure sarebbe stato sufficiente contarne solo uno per essere sopraffatto?
Non sapeva ancora. Non poteva sapere.
No, doveva sottrarsi immediatamente da quella morsa che sentiva già alle caviglie, ormai immobilizzate da alcune lastre di neve pesanti come marmo.
Doveva liberarsi da quella danza che iniziava a diventare turbinosa e pericolosa. Doveva togliersi immediatamente da quell’abbraccio che avvertiva trasformarsi in una stretta letale, una stretta che, istante dopo istante, diveniva sempre più maledettamente vigorosa.
O controllava ancora una vota il rischio o lo avrebbe subito sino alla fine nelle sue tragiche conseguenze.
Con uno sforzo vigoroso aveva tentato di sollevare entrambi gli sci per svicolarsi da quella massa di neve fluttuante, che aveva iniziato a spostarlo e trascinarlo verso il basso, senza poter imprimere più alcuna forza al suolo.
I muscoli erano tutti tesi e pronti a scattare per una via di fuga laterale se ve ne fosse stata la possibilità, il dorso ora nuovamente inarcato per cercare di rialzare le punte degli sci e rompere quelle lastre di marmo che ora sentiva salire oltre alle caviglie, su verso le ginocchia, già bloccate come in un blocco di calcestruzzo biancastro che si rapprendeva con sorprendente velocità.
Comprese che non sarebbe riuscito a fronteggiare, neppure minimamente, quelle forze inaudite che lo ghermivano come fa il freddo con il fiore che sboccia anzitempo in primavera: lo stelo del fiore si fletteva al primo sentore del gelo, sino a non riuscire più a sostenere il peso della corolla. Così ora le sue gambe piegate innaturalmente faticavano a tenere il busto e il capo dritto.
La paura sconfinata sembrava comandasse ogni sua azione, ogni movimento.
Nessun controllo era più possibile.
Bagliori accecanti, lampi e atomi di ricordi, dove riaffioravano brandelli di vita, gli esplodevano in testa in un amalgama scomposto adesso dal terrore.
Schopenauer aveva affermato che “ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza.”
“E questa intuizione formidabile – ricordava in millesimi di secondo Don Claudio, quasi in un attimo sospeso, senza più tempo – stava nel fatto di considerare l’uomo non solo come soggetto conoscente, ma anche come essere dotato di un corpo. Tale corpo è indubbiamente finalizzato per la nostra percezione, per il senso esterno, ma è anche la sede di un senso interno che ci mostra immediatamente la nostra coincidenza con una forza, un impulso che è la volontà, la più forte delle pulsioni innate.”
“In questo caso – continuava a ripeterselo in quei attimi infinitesimali – era la volontà di vivere, di andare oltre a sé stessi anche senza aver sparso il seme e dato vita a dei figli. Noi – diceva in un modo ormai impercettibile al senso comune – siamo volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci spinge, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire.”
Don Claudio, alla fine di questa rappresentazione pazzesca, era riuscito a gridare con la forza della fine imminente il suo “no” più forte al cielo.
Un “no” imperioso nell’estrema volontà di fermare quegli elementi ormai impazziti sotto le solette dei suoi sci diventati ormai ingovernabili.
Un “no” rabbioso che racchiudeva tutto il suo sgomento, ma anche la sua determinazione a non arrendersi ancora una volta al senso di vuoto che lo stava ormai aggredendo, proiettandolo prima in alto, poi verso il cuore gelido, più interno della massa nevosa lattiginosa.
Un “no” che era sembrato inizialmente più potente della valanga stessa, ma che stava però sfumando flebilmente, ovattato dalla polvere bianca in sospensione, ovunque là nella valle.
Un “no” soffocato da un’onda di neve violenta e poi da un’altra, ancora più caparbia e ricolma di cristalli che aggredivano l’aria ovunque, scuotendolo di una tragica ossessione: “La valanga, la valanga, Dio mio, Dio mio Signore, la valanga!”
L’effetto di quella valanga dalla quale era ormai impossibile sottrarsi era simile a quello di un’enorme matassa di filo spinato bianco, che si avvolgeva con violenza sulle membra di Don Claudio, lacerando ogni sforzo residuo.
Don Claudio, con le sue ultime fibre nervose contratte all’inverisimile per contrastare quello a cui non ci si poteva più opporre, era ormai ovunque e in nessun luogo: in alto, in basso, poi di fianco per essere, quindi, scaraventato ancora in alto e poi più sotto nuovamente a quegli stessi vincoli che pochi istanti prima aveva sentito alle caviglie e poi alle ginocchia.
Le braccia e le gambe ridotte ad arti di stoffa ingovernabili, il busto un elastico teso e allentato come un gioco rotto. Ugualmente vano era stato il tentativo di ridare compostezza e verticalità all’azione, ormai compromessa per sempre. Impossibile, infatti, la resistenza a forze sovrumane originate da un enorme soffio bianco, freddo e avvolgente che stava spostando anche l’orizzonte normalmente percepito.
La bocca semi aperta nello spasmodico urlo che usciva con un ultimo formato gutturale, quasi simile a quello di un animale racchiuso in una gabbia angusta e scura che anela a spezzare la catena e liberarsi. Le labbra distese in modo innaturale nel bisogno estremo di respirare quell’aria vitale per sopravvivere quanto più a lungo possibile.
Poi un ultimo lampo, come una scossa impazzita nel tempo, un fremito fugace che già non è più si rapprende nella mente di Don Claudio, come un occhio della memoria più dolce: quel lettino tiepido di cirmolo e quell’abbraccio materno a proteggerlo per sempre nel grande viaggio.
Si leva un altro lampo ancora, più intenso, una croce smisurata, spropositata per grandezza, tanto da penetrare l’orizzonte e dilatarsi in modo abnorme ovunque. Una croce purissima nella quale si era riconosciuto e con la quale aveva dato speranza a tanti.
Quel bagliore era sfumato poco dopo in un volto che si rivela essere quello di un Padre amorevole e misericordioso: Dio e padre che dava comunque senso alla tragica contingenza mortale attraverso il riconoscimento della sua straordinaria esistenza in vita.
Poi il buio. Altro buio uguale al precedente, alla fine.
Il silenzio ora ammantava il cielo. Una volta stellata rimasta immobile e muta testimone, quasi interdetta dopo il boato bianco che aveva sconvolto la linea del monte, là in alto, e la pace della vallata, più sotto a creare un anomalo contrasto.
La Luna, invece, stava incerta proprio sopra il punto in cui Don Claudio era stato inghiottito da quelle fauci bianche e sepolto ora sotto uno spesso strato di materia bianca e fredda, ancora instabile.
Quell’astro caldo, che da sempre lo aveva accompagnato nei momenti più intensi e autentici della sua esistenza, ora irradiava invece di continuo una luce tenue che si diffondeva nel cielo ancora aperto, incapace di scendere verso il basso. Filamenti chiari, sottili e oscillanti come una smisurata ragnatela trasparente che viene scossa leggermente dal vento, quasi a voler lasciare in quel posto tragico un segno per quanti dopo ne avrebbero cercato il corpo.
In quel luogo, che risulterà per ore indefinito, si poteva ora scorgere un cielo che aveva già assunto sembianze diverse: plumbeo e iniettato di qualche filo chiaro attorno al monte, decisamente macchiato di nero, spostandosi con lo sguardo solo un poco più in basso, dove la tenebra stava ammantando la luce residua rimasta appiccicata qua e là.
Sulla sinistra della montagna, ben visibile, era restata intatta quella traccia agile e decisa a cercare la vetta. Una linea che dal basso si portava con determinazione in alto, verso la cima, unica impronta d’uomo, unico segno d’uomo, esile aspirazione alla vetta e già memoria di Don Claudio…
Fabio Bristot – Rufus