In occasione delle iniziative per ricordare il “padre” delle Dolomiti, Deòdat Gratet de Dolomieu, il Comune di Valle di Cadore nel 1988 aveva allestito ed aperto il Museo geo-naturalistico comunale, iniziativa che purtroppo non aveva riscosso molto fortuna, tanto che venne smantellato già nel 1992, solo pochi anni più tardi, dunque, dalla pur lodevole iniziativa. Il Museo era stato dedicato a Giulio Pisa (1936-1976), professore di Geologia Regionale dell’Università di Bologna, tragicamente deceduto in Cadore e di cui ora racconteremo.
Con il collega Riccardo Assereto di Milano, Giulio Pisa, nell’estate 1976, si trovava nella zona di Casera Razzo per approfondire una serie di studi sul Trias del Cadore e delle Dolomiti e sulle “vulcaniti ladiniche”, con particolare attenzione alle caratteristiche geomorfologiche del Monte Bivera (mt. 2.474), ma anche a quelle del Monte Clapsavon (mt. 2.462). Proprio in quest’ultima area aveva nel tempo raccolto molti campioni di ammonoidi, ma anche svariati campioni di bivalvi, gasteropodi e brachiopodi, effettuando studi e pubblicazioni molto qualificate da un punto di vista geologico.
Il Rif. Tenente Fabbro (mt. 1783) era la loro base logistica ed operativa, dalla quale si spostavano per le escursioni scientifiche e alla quale facevano ritorno la sera, come già altre volte avvenuto in precedenti campagne geologiche.
“La mattinata del 15 settembre, alle ore 11.00 – ricordano Evelino Del Favero ed Antonio Genova, rispettivamente Capo Stazione del Centro Cadore e Volontario della Stazione di Pieve di Cadore – era avvenuta una forte scossa di terremoto che, nel vicino Friuli, procurò ulteriori danni rispetto al sima devastante di inizio maggio dello stesso anno. A sera, attorno alle 22.15, la moglie di uno dei due professori che attendeva al rifugio, non vedendoli rientrare, si allarmò al punto che il gestore, con il doveroso scrupolo, provvide a far chiamare i soccorsi”.
Le squadre dei Volontari della Stazione del Centro Cadore, allertata per competenza territoriale, vennero velocemente approntate e con 12 uomini si portarono senza indugio sul posto, iniziando le ricerche sin da subito sul lato ovest del monte Bivera, secondo quelle che erano state le prime indicazioni fornite. Le ricerche si protrassero per tutta la nottata sotto un temporale violento che mise alla dura prova gli operatori del Soccorso Alpino anche per lo sviluppo del tutto particolare delle circostanze.
Degli scomparsi però non era emersa nessuna traccia né indizio utile ad individuare con esattezza il luogo di ricerca più probabile, ad eccezione di un tentativo fatto dallo stesso Capo Stazione che, su indicazioni della Sig.ra Pisa, aveva invano provato ad identificare l’area in cui si sarebbe dovuto trovare un campo estivo di carattere universitario diretto dagli stessi professori dispersi. Non era stato però possibile sapere con esattezza dove fosse ubicato questo campo e per questa ragione l’operazione di soccorso, in assenza di elementi certi e probanti, andò prendendo velocemente tinte piuttosto fosche.
Erano state infatti percorse, già nelle prime ore di ricerca, svariate tratte di sentiero delle zone indentificate come possibili aree primarie in cui effettuare tentativi mirati. Erano stati anche effettuati numerosi richiami acustici, ma senza che vi fosse alcun esito positivo, il benché minimo riscontro rispetto allo sforzo che continuava ad essere prodotto da tutto il personale impegnato severamente nell’attività di soccorso ormai da qualche ora. Anzi, la situazione sembrò nottetempo precipitare ulteriormente.
La notizia che sino ad allora non era in alcun modo emersa e che lasciò, di fatto, impietriti tutti i soccorritori che si trovavano in quel momento al rifugio, fu quella che la moglie del prof. Pisa comunicò solo alle 02.00. Forse per una banale, ma non perdonabile dimenticanza, forse con maggiore probabilità per la forte componente dello stress che la stava martoriando, si era del tutto scordata di comunicare che il prof. Assereto non era solo, ma si era fatto accompagnato dal figlio undicenne e che, di certo, doveva trovarsi con il padre, avendolo accompagnato nella campagna geologica sin dal primo giorno. Al dramma che tutti stavano vivendo in maniera già piuttosto intensa si aggiunse, dunque, anche la marcata preoccupazione per la sorte del ragazzino.
Ma possibile che tre persone disperse, nonostante l’ampia zona di ricerca effettuata sino ad allora, non dessero alcun segno di sé? Cosa poteva essere successo? La semplice perdita del sentiero? L’aver seguito una labile traccia ed essersi portati addirittura sull’altro versante o su un altro gruppo montuoso?
Sta di fatto che Del Favero, alle 04.00 esatte del 16 settembre, valutata il complessivo andamento della ricerca e stante l’esito sconfortante delle operazioni, al quale si associavano gli inattesi nuovi sviluppi legati alla presenza del ragazzino, decise di telefonare a Lino Cornaviera, Capo Stazione di Pieve di Cadore, richiedendo l’appoggio di altri uomini freschi e, possibilmente, profondi conoscitori del territorio.
Nonostante lo sforzo notevole prodotto per tutta la notte, con autentiche corse effettuate dai Volontari del Centro Cadore nel tentativo di percorrere la fitta maglia di sentieri impervi della zona inizialmente prescelta per la ricerca, non era stato raggiunto l’esito sperato. Sembrò, dunque, essere una scelta oltre che saggia, anche necessitata dal numero di persone disperse in quanto le stesse potevano essersi anche divise.
Un’altra squadra del Centro Cadore congiuntamente a quella di Pieve che aveva raggiunto nel frattempo il rifugio con una campagnola dei Vigili del Fuoco guidata da Alessio Tabacchi, alle 06.15 riprese, quindi, le operazioni, identificando con cura le zone già battute nottetempo e quelle sulle quali si sarebbe dovuta svolgere l’attività di ricerca successiva, con la scansione di un ulteriore rete di sentieri minori e di alcune tracce. Inoltre, si sarebbero dovute svolgere alcune verifiche puntuali su possibili obbiettivi che sarebbero dovuti emergere grazie alle testimonianze raccolte dagli ambienti universitari legati ai due geologici.
Gran parte del versante est del Monte Biviera veniva setacciato dai Volontari, ma i dispersi sembravano essere letteralmente inghiottiti dalla montagna, nessuna traccia o elemento che mettesse i soccorritori in grado almeno di restringere la disperata ricerca ad un settore la ricerca primaria.
Nelle stesse ore – non esistevano allora telefonini e la linea telefonica del rifugio era stata spesso interrotta a causa del forte temporale che imperversò nottempo in zona – si decise di interpellare l’Università di Bologna, raccogliendo finalmente notizie certe sul campo studentesco e sulla sua dislocazione, oltre ad altri elementi in grado di indirizzare l’azione di soccorso che stava assumendo contorni importanti. Contattato velocemente il responsabile ed alcuni suoi collaboratori, questi riferirono che i professori Pisa ed Assereto stavano compiendo ricerche sugli strati werfeniani, stratificazioni queste di roccia rossastra che potevano essere scorte anche da parecchio lontano, ciò proprio a causa della loro particolarità cromatica.
Un volontario assai pratico dei gruppi montuosi della zona, Roberto Zandonella, tra l’altro campione olimpico e mondiale di bob a due, venne pertanto mandato sulla strada che conduce a Sauris per esaminare a vista e con il binocolo le varie formazioni rocciose presenti sul monte e ragguagliare le squadre più in basso di quanto stava vedendo, dando loro particolari precisi per permettere poi loro di muoversi sul terreno senza subire la casualità della ricerca di elementi.
Evelino Del Favero ricorda che quella “era l’ultima speranza di ottenere una qualche informazione poiché i Volontari, inzuppati di acqua e fango iniziavano ad essere veramente provati da oltre dodici ore quasi ininterrotte di ricerca.” Fatto sta che Zandonella, via radio, riuscì a comunicare che con il cannocchiale stava vedendo degli strati di roccia corrispondenti alle descrizioni fatte dagli studenti in modo molto circostanziato.
Alcuni Volontari che si trovavano più a valle furono allora indirizzati via radio lungo la parete orientale della montagna dove, superando in arrampicata alcuni tratti rocciosi davvero delicati per raggiungere più direttamente la zona, vi pervennero in circa un’ora. Iniziarono, quindi, subito ad analizzare minuziosamente il terreno sino a trovare alcune tracce di scarponi che, fortunatamente, l’acquazzone notturno non aveva ancora del tutto cancellato.
Sembrava essere la prima traccia reale dopo ore di tentativi frustrati dall’insuccesso. Tre impronte modellate dalla pioggia martellante delle ore precedenti che però non era riuscita a modificare del tutto il calco sul terreno fangoso.
Pochi minuti più tardi dal rinvenimento di quel primo importante indizio, salendo sul brodo di un canalone, venne intravista la suola di uno scarpone, affiorante dalla terra e dalla ghiaia che si trovava tutt’attorno, assieme a dei pezzi di roccia dalle dimensioni più ragguardevoli.
Pochi secondi dopo, la tragica conseguenza del ritrovamento di quella suola sporca di fango: alle 13.40 viene avvisata la base logistica istituita nei pressi del Rif. Tenente Fabbro che i due sfortunati cercatori di rocce e fossili erano stati individuati con certezza. Assieme a loro il figlio del prof. Assereto, anche lui semisepolto dalle rocce frantumate, la cui rimozione del corpicino mise alla dura prova i soccorritori che vi si trovarono di fronte. Si trovavano tutti a poca distanza uno dall’altro, parzialmente ricoperti da blocchi instabili, probabilmente staccatisi dalla parete per gli effetti della forte scossa tellurica avvenuta nella mattinata del giorno precedente (nda: avvenuta alle 11.21 di magnitudo 6.0).
Fatto il punto esatto della situazione in ordine al numero di persone necessarie per effettuare le operazioni di ricomposizione delle salme e per garantire la lora traslazione a valle, tutte le squadre del Soccorso Alpino vennero indirizzate nel luogo del ritrovamento con tutti i materiali necessari per compiere quella che sarebbe diventata un’operazione anche tecnicamente complessa da svolgersi. Ciò a causa di alcuni salti di roccia presenti in zona che avrebbero reso necessario l’effettuazione di alcune laboriose manovre di corda.
Trovandosi le tre salme in territorio friulano, tramite i Carabinieri di Ampezzo, venne richiesto alla Procura di Udine l’autorizzazione per la rimozione e venne avvisata la Stazione competente per territorio che le due Stazioni del Centro Cadore e di Pieve di Cadore, trovandosi ormai sul luogo dell’evento, avrebbero provvisto al recupero dei poveretti e, successivamente, avrebbero informato il locale Soccorso Alpino delle varie dinamiche intervenute.
Considerata la conformazione del terreno ed il forte dislivello necessario per raggiungere la base della parete, venne deciso di allestire una teleferica, necessaria quantomeno per superare un primo rapido canalone.
Dopo tre ore di manovre con gran parte dei Volontari impegnati, le salme furono lentamente portate nella cella mortuaria di Sauris di Sopra, concludendo così nel tardo pomeriggio un intervento emotivamente molto provante e altrettanto complesso sia per le questioni logistiche sia per quelle di carattere anamnestico ed investigativo, grazie alle quali fu possibile circoscrivere l’area di ricerca.
Fabio Bristot – Rufus