Alla fine del 1989, un piccolo gruppo di alpinisti bellunesi guidati da Bruno De Donà è alle prese con il Cerro Fortaleza, una imponente montagna nel gruppo delle Torri del Paine. Per più di quattro settimane si avvicendano, prima nel trasporto delle attrezzature e dei viveri dalla baracca del campo base su per le faticose morene della valle del Silencio spingendosi fin sotto la parete dove scavano una grotta nel ghiacciaio che servirà da campo avanzato; poi, attrezzando il contrafforte di misto con delle corde fisse flagellati dal brutto tempo patagonico. I 650 metri dell’inviolato sperone nord ovest finalmente verranno scalati da Bristot, Canzan e De Donà: alle 10 del 26 novembre, guadagnati i facili pendii di neve sommitali, finalmente sono in cima.
Come fossero sulla Fortezza Bastiani del deserto dei Tartari la via dedicata a Dino Buzzati è fatta!
Dal diario di Fabio Bristot ecco il racconto di quei giorni.
di Fabio Rufus Bristot
Patagonia – Cile, 22 ottobre – 13 dicembre 1989
Molte pagine di questo “quaderno delle escursioni e delle arrampicate “ verranno usate per relazionare momenti importanti per la mia crescita di alpinista. Seguirò il testo originario, salvo correggerlo nei punti più lacunosi. Lascerò i tempi usati nella stesura originale (alcuni fogli consunti) per non fare di questa sorta di diario una cronaca remota, ma una storia viva o meglio vivace.
27 ottobre. Dopo peregrinazioni per mezzo mondo siamo finalmente giunti all’ingresso del Parco Nazionale del Paine, un’area estesa quanto il Veneto, nella Patagonia cilena. Trascorriamo la notte in una baracca, chiusi nei saccopiuma e al riparo del vento che entra per altro facilmente tra le assi del ricovero. L’indomani contattiamo “la svizzera” per il trasporto del nostro materiale d’arrampicata e dei viveri. Ci fornirà i cavalli, al termine di lunghe trattative, a 32 $ l’uno. Indubbiamente i suoi affari sa proprio farli bene. Marco, Sandro, Berto, Mauro e Bruno partono per il campo base con tre cavalli e pesanti zaini, io rimango con Mirella alla baracca ad aspettare il rientro dei gauci e completare il trasporto dei nostri borsoni. Sino a questo punto l’intesa del gruppo mi è parsa ottima, anche se abbiamo incontrato alcuni problemi logistici durante il trasferimento al Parco. Dal finestrino dietro cui sto scrivendo scorgo la la figura slanciata delle Torri del Paine, cuspidi meravigliose attorniate da monti ancora innevati – qui il limite delle nevi perenni è posto a circa 900 mt s.l.m. -, boschi primaverili che stanno iniziando ad aprirsi al cielo, un cielo violetto, quale raramente si scorge in Dolomiti. Vedo che la penna fatica a scorrere su questi fogli regalatami da Rosa, la moglie del guardiaparco, vorrei dire mille cose e scriverne altrettante, ma il vento che sembra sbriciolare le rocce non fatica certo a portare a spasso i miei pensieri, così leggeri a confronto con quelli eterni delle Torri, sentinelle guardinghe di queste sterminate radure verdi e di questi laghi incantati.
28 ottobre . Partiamo dalla baracca in tarda mattinata con 4 cavalli carichi dell’ultimo materiale. Dopo 4 ore di cammino arriviamo al campo base, una splendida radura posta a ridosso di una faggeta, ove risalta il bel colore delle nostre tende. Ceniamo nella “Baracca dei Falchetti” (costruita nel 1986 da una spedizione trentina) e tra un boccone e l’altro apprendo le prime notizie sulla parete: spigoli, diedri, raccordi, strapiombi, vie di salita possibili. Non fa molto freddo, anzi il clima sembra assai mite.
29 ottobre. Con carichi decisamente pesanti ci inoltriamo nella bella foresta che conduce, tra i molti guadi, al campo base dei giapponesi. Un’ora di cammino fatato tra gli alberi che sembrano bere, con le loro fronde primaverili appoggiate all’acqua, il torrente che scende turbinoso tra gli enormi massi granitici, come arrabbiato per i troppi intrusi. Saliamo infine il ghiacciaio che ci permette di raggiungere alla base della Fortaleza, ora visibile in tutta la sua maestosità. Discutiamo a lungo sull’ubicazione dell’igloo, a causa delle scariche mozzafiato che scendono dalla fascia di rocce nere che fanno corona alla cima. Iniziamo i lavori con badili e piccozze che dopo 4 ore e mezza consentono di creare un vano discreto per una tenda. Mauro e Berto si fermano su.
30 ottobre . 25 chili a testa (… o quasi) di materiale vario per un secondo viaggio sino all’igloo. Un percorso che si rivela subito molto faticoso per la neve instabile e per la profondità della stessa. Siamo costretti a cambiare itinerario lungo il ghiacciaio per evitare sassate sulla testa. Marco decide di fermarsi all’igloo con Bruno: tenteranno di trovare la chiave di salita, cercando di evitare pericoli oggettivi quali i blocchi di ghiaccio o di bel granito rosa che cadono senza sosta dalla cima. Ritorno faticoso per il vento che riesce a gettare a terra anche le persone. Ottima serata all’insegna dell’allegria. Mangiamo pasta con tonno innaffiata con abbondante “pisco” (un intruglio torcibudella locale), offertoci da John e Pete, due americani da qualche ora arrivati al campo base. Berto è stanco, fatica ad inserirsi in un ambiente che gli sembra ostile.
31 ottobre. Dormo profondamente e mangio altrettanto bene. Alle 2 parto dal base con viveri di supporto per l’igloo (è in realtà una profonda truna nel ghiaccio) e vestiario personale. Avanzo spedito tra guadi e piante maestose. Le più grosse sono cadute a terra, ma la loro morte ha lasciato spazio a quelle più giovani che, con fatica, si protendono verso la luce. Poi, dopo l’idillio boschivo, inizia la marcia peggiore sui nevai e sulla morena. Non ho nessuno con cui parlare ed i sassi mi squadrano con il loro aspetto serio, quasi ad ammonirmi. Ora devo stare veramente attento a risalire il ghiacciaio. Alle 5.30 arrivo all’igloo un po’ affaticato per il terzo viaggio consecutivo e sorpreso per l’incazzatura dei miei amici, increduli che sia salito da solo. Ritorno presto in me con qualche sorsata di tè bollente.
1 novembre. Bruno e Mauro domani proveranno lo spigolo di sinistra, lungo i 300 mt. di corde fisse lasciate dagli americani (Jim Bridwell) l’anno scorso, a seguito di un infruttuoso tentativo. Oltrepasseranno di un tiro il punto raggiunto da “Bridwi”, ma sono costretti a desistere per la pericolosità della salita – Bruno viene investito da una slavina. Bruno e Mauro scendono al campo base, arrivano Berto e Sandro.
2 novembre . Ora tutte le nostre forze sono indirizzate sullo spigolo. Per questa ragione si decide di portare parte del materiale sulla forcella formata dalla Fortaleza e dall’Escudo, chiamato così per la sua caratteristica forma. Avanziamo in conserva con notevole precarietà. Nevica molto forte. Non possiamo continuare oltre per l’instabilità del manto nevoso (forse potremmo dire con più sincerità che non vogliamo continuare). Ancoriamo il sacco del materiale con dei chiodi infissi in alcuni lastroni, a circa un terzo del percorso che ci attendeva. Prima nota dolente, mi lascio scappare nelle sottostanti crepacciate 50 mt. di corda fissa … dio …. Ritorniamo un po’ sconsolati a quella che sembra essere diventata la nostra casa di ghiaccio, fradici di fatica e neve. Continua a tirare un forte vento, nevica copiosamente. L’entrata dell’igloo è diventata ancora più angusta. Scaviamo a turno per ore, per mantenere aperto un buco che ci consenta di respirare.
3 novembre . Giorno di riposo. Marco e Berto scendono. Con Sandro sistemiamo l’igloo, riordinando tutto. Asciughiamo tende e sacchi piuma, ormai ridotti a stracci bagnati. A sera tornano Bruno e Mauro.
4 novembre. Sveglia ore 4.30 con destinazione forcella. Bruno sale veloce con Mauro, seguono il sottoscritto e Sandro che ho soprannominato Paracar, visto l’incedere oltremodo lento. Avanzo con cautela, anche considerato il materiale che ho appresso e in particolare 250 mt. di corda fissa, 1 corda da 50 mt, 20 metri di cordino, una trentina di chiodi edaltro materiale (chi 20 chili sulla schiena e chi 3 etti di formaggio …). La salita non è particolarmente difficile, anche se in alcuni punti insidiosa: presenta alcuni canali di 50/60°, con passaggi di misto e su roccia sino al III°. Nota dolente per la qualità della roccia che sta assieme più per il gelo che per la sua composizione. Arriviamo in forcella dopo ca. 2 ore e mezza (recupero Sandro in sicurezza per tutto il percorso e ciò nonostante ha paura). Spira un vento di violenza inaudita che solleva gli zaini come fossero foglie e sembra sradicare anche noi. E’ opportuno restare ancorati ad un provvidenziale spit. Ho molto freddo, ma sparando cazzate ci si concentra su altro. Mauro e Bruno sistemano il lungo spezzone di corda fissa lasciato nel corso del precedente tentativo. La corda si è ridotta in poco più di 36 ore a tre spezzoni (il vento è riuscito anche in questo a rallentarci). Salgono dunque sul bancone di ghiaie e lastroni inclinati ove è stato riposto il materiale nel corso della prima ricognizione. Dopo un po’, decido anch’io di risalire con le jumar (ho mentito a tutti ma è stata la mia prima volta), mentre Sandro aspetterà più sotto, alla Forcella Alata (toponimo proposto da Armando Aste) consumando il formaggio …. Sopra, proseguiamo nei lavori di scavo per creare un posto tenda, ma è tutto ghiacciato e la presenza di roccia rende vano ogni tentativo. I chiodi usati come cunei serviranno alla fine ad abbassare il terreno di soli pochi centimetri. Il vento impetuoso cala leggermente e Bruno decide di salire una placca inclinata di modeste difficoltà. Scende dopo poche decine di minuti per l’inclemenza del vento che lo strappa dalla parete. Prova così un’altra linea più a destra lungo una fessura diagonale che permette una discreta progressione. Decido, dopo aver portato del materiale al secondo tiro, di scendere all’igloo con Sandro e aspettiamo con ansia i nostri compagni. Riusciranno a forzare la fessura e una serie di diedri per un totale di ca. 110 mt.. Salgono Marco e Berto, permettendoci di scendere al base (varie fermate per diarrea fluens … addio maglia di lana !).
5 novembre. Dormo sino alle 11.30. Per pranzo arrivano anche Mauro e Bruno. Mentre consumiamo una pasta squisita al sugo piccante discorriamo dei primi metri di via segnata sul pilastro, della possibilità di raccordarsi sulla sinistra per intersecare un diedro e altre possibilità che la parete può offrire. In alto il tempo è molto incerto con alti e bassi del barometro. Nevica e, nota dolente, l’igloo inizia a dare segni di cedimento. Andrà rinforzato se non vogliamo perdere tutto il materiale. Noto con piacere che è arrivata al base una spedizione toscana di grande simpatia. Sono tutti indaffarati alla costruzione di una nuova baracca. Vedremo che intenzioni hanno, ma da come intarsiano il legno mi sembrano più abili artigiani che alpinisti motivati. Trascorriamo la serata in compagnia degli americani, scesi dalla loro “cava” sulla morena, scoraggiati dalle condizioni meteo e, credo, anche un po’ per cambiare panorama. Mangiamo del radicchio (chiamiamolo così) che sono andato a cogliere a un’ora di cammino dal base: camminata mossa dalla prospettiva di una lauta cena da consumarsi in Italia, scommessa con Bruno, restio a credere che vi fosse qualcosa di assimilabile a del radicchio in Patagonia. Vengono ordinate ai gauchi delle provviste e mezza pecora. Mi sembra che sia tutto ok, ma si percepisce della tensione..
6 novembre. Siamo tutti al base, Marco e Berto sono ritornati nel pomeriggio con il morale sotto i vibram. L’igloo è stato rinforzato ma le volte manifestano segni di cedimento. Dobbiamo ammetterlo: stiamo viaggiando su un mare increspato e alcuni stati di disagio sono sempre più palpabili.
7 novembre. Tutti pigramente al base, nessuno sembra avere tanta voglia di salire, un po’ per le pessime condizioni atmosferiche, un po’ per lo spirito. Il clima è teso ma le bocche sembrano cucite e si aprono di tanto in tanto per mangiare bocconi di pecora alla brace e pane fresco (ci voleva dopo due settimane di brodaglie). Abbiamo dovuto cucinare anche l’ultimo quarto di pecora dopo la visita notturna del puma. Dopo un lauto pranzo c’è una piccola contesa verbale. Più tardi mi sembra tutto a posto, anche se sussistono ancora evidenti attriti tra Berto e Bruno. A metà pomeriggio partiamo per l’igloo con provviste bastanti per 4 giorni. Fatico nell’ultima parte del ghiacciaio al ritmo sostenuto di Bruno.
Sveglia alle 3 e mezza. Non sono al massimo della forza. Una voce sottile e sconosciuta mi indica il percorso da seguire, soprattutto lungo l’itinerario che sale alla forcella che affronto con titubanza nei passaggi tecnicamente più ostici. Bruno si lega con Marco risalendo la corda fissa attrezzata in precedenza, mentre io, a causa di una caduta stupida tra le risa di Marco (sono scivolato sul verglas per 5 mt), rimango a leccarmi le ferite. Successivamente, verificato che il ginocchio non soffre più di tanto decido di salire con una bobina di corda da 200 mt. sulla schiena. Il mio compito è quello di rinviare le fisse in modo da evitare attriti con la roccia, rinforzando i chiodi già infissi. Dopo aver rinforzato le soste, cambiandone gli spezzoni, e alcuni punti intermedi con degli spit, raggiungo presto Marco in sosta. Bruno sta scalando placche appena inclinate, lungo una fessura poco marcata che si sviluppa per qualche decina di metri sopra le nostre teste. Non è semplice. Il vento inclemente e le raffiche di nevischio lo costringono a un’arrampicata delicata in artificiale, con difficoltà di chiodatura a causa della conformazione svasata della fessura. Alla fine riusciremo ad attrezzare altri tre tiri di corda per complessivi 130 mt. (Rufus ricorda le mani di Bruno devastate dai cristalli del granito!). Ritorniamo alla casa di ghiaccio alle 9.30 dopo la solita discesa rompicazzo.
9 novembre. Marco scende con Bruno. Ha cominciato a nevicare e, come sempre, spira un vento intenso. Con Sandro riassettiamo l’igloo asciugando tutto l’asciugabile. Berto e Mauro arrivano su all’imbrunire in ottima forma fisica e in vena di scherzare.
10 novembre. Decidiamo di tentare un nuovo attacco. Il vento sembra spazzarci via e siamo costretti ad aspettare tre ore interminabili dietro al muricciolo costruito come riparo. Inganniamo il tempo immaginando strumenti di misura dell’effettiva forza del tornado. Si può dire con buona attendibilità scientifica che scaglie di roccia di 2/3 etti vengono spostate per qualche decina di metri prima di cadere goffamente a terra, mentre il ghiaino di volumetria minore è spazzato forse per cento e più metri. Mauro e Berto quindi ritentano la risalita delle fisse, ma vengono sballottati come marionette. Sono costretti a ridiscendere. Ancora un’ora di snervante attesa, quindi si decide di riprovare. Salgo legato in conserva con Berto timoroso che le corde non siano in buone condizioni – per questo motivo lascia al sottoscritto l’ingrato compito di verificarle. Il solito trak trak con le magiche maniglie sino al punto più alto raggiunto da Bruno. Ci raggiunge anche Mauro, permettendomi di scendere a sistemare la fissa nei punti più scabrosi. Per ben due volte sono costretto a usare un paranco per recuperare la corda da inserire nel discensore, tale è la tensione della campata di corda provocata dal vento. Scendo successivamente silenzioso con Sandro all’igloo assicurandolo in alcuni tratti. Sono in ansia per i nostri compagni. Alla fine riusciranno a forzare il tetto alla fine della placca per una lunghezza di corda che li ha impegnati per 5 ore. Fanno quindi quasi 300 mt di via segnata sul pilastro.
11 novembre. Ritorno al base. Camminata molto interessante lungo la morena che permette di constatare che in ca. 15 giorni il manto nevoso è diminuito di oltre 3 metri, mettendo a nudo molti massi. Una nota che mi sembra doveroso fare riguarda Mirella. Poche volte il suo nome è comparso su questi fogli e forse ingiustamente. E’ facile trovare la pappa pronta al base, è facile ringraziare appena riempita la pancia, ma molto più facile dimenticare tutto una volta usciti dalla baracca. Giochiamo a scala sul tavolino pensile, mirabile opera d’arte boscaiola.
12 novembre
. Tempo di alzarsi.
E’ arrivato Mauro in tempo record, riferendoci che a metà ghiacciaio è caduta una seraccata di notevoli dimensioni proprio lungo la nostra traccia. Ciò significa che dovremmo porre ancora più attenzione ed evitare le ore troppo calde.
Solite cazzate che devo talvolta sparare per ravvivare l’intesa del gruppo. Spero che qualcuno riesca a cogliere il mio atteggiamento come un qualcosa di diverso dal clown che devo interpretare. Mi riesce per altro bene alle volte.
Nel pomeriggio perdo alcune birra a scala, mentre in serata sbanco tutti a poker (poker-face, mi chiameranno gli americani).
13 novembre. Sento nel dormiveglia mattutino la voce del gaucho, ma è solo un’impressione: forse il richiamo del cibo che inizia a scarseggiare! Abbiamo iniziato a fare alcune economie . La giornata è uggiosa … alle 11 inizia a spirare un forte vento, piove, a tratti nevica con eguale intensità. Questo significa che in quota nevica forte, penso a Marco e Bruno – staranno lottando con la parete o forse sono comodamente rinchiusi nei sacchi piuma. Vengo smentito quasi immediatamente, arrivano nel pomeriggio, abbastanza provati e completamente inzuppati: due tentativi vanificati dalle pessime condizioni meteo e dall’inclemenza del vento. Ceniamo assieme, ma inizia uno strano processo psicologico: più si pensa al cibo ormai scarso e razionato, più sembra mancarti. Non è una sensazione piacevole per noi occidentali abituati alla pancia sempre piena. Faccio poi un salto da Manica e amici (tutti forti arrampicatori trentini). Ragazzi cordiali che non disdegnano di offrirti una tazza di caffè caldo (noi non ne abbiamo) ed una sigaretta con ottimo samson.
14 novembre - Tempo inclemente con il vento che sembra sradicare i faggi attorno alle tende. Bella serata con musica (dalla radio di John) e grasse risate. Siamo riusciti a captare poche e confuse parole della BBC, la più distinta e lapidaria era quella che mi ha scosso e fatto tremare per ore “Berlin Wall is cracking”. Poi l’interferenza ha chiuso la comunicazione. Nella mia testa sono iniziate a fluire le più svariate ipotesi su quel messaggio, ho visto scorrere i fotogrammi storici dell’ultimo secolo, immagini crude, croci uncinate. Che ne sapevo di cosa stava accadendo in Europa?
15 novembre. Sveglia per pranzo. Ancora condizioni meteo inclementi con bufera di neve anche qui al base. Nel pomeriggio decidiamo con Sandro e Berto di partire, ma non sarà facile raggiungere l’igloo. Dopo 3 ore di marcia sotto la neve ci investe una tormenta che ci consiglia di ritornare al base. È strano, ma la neve mi dona una strana sensazione: felicità e senso di libertà. Attorno a me non scorgo la morena con i suoi enormi macigni. Al loro posto la strada alberata che da Castion conduce a casa mia, la mia ombra che cammina a lunghe falcate sulla coltre di neve appena caduta. Immagini e pensieri provocati da chissà quale filtro emotivo. Pasta e visitina ai trentini.
16 novembre. Ore 12, dormire, sempre dormire … eppure cosa vuoi fare, svegliarti alle 7, fare colazione, ordinare il materiale con maniacalità, limare le unghie e danzare per far tacere il vento? No, meglio riposare. Vorrei portare avanti la lancetta delle ore, a volte dei giorni, ma che senso ha forzare il tempo? Nel pomeriggio ci portiamo tutti in alto, lungo il primo tratto della morena, per alcune foto di gruppo. Spira un vento fortissimo che mi fa cadere varie volte. La giornata è eccezionale, il cielo tersissimo. Sullo sfondo l’Escudo con il suo spigolo maestoso e la Fortaleza, Fortezza come la chiamiamo negli ultimi giorni. Quindi dopo i consueti saluti e auguri, Bruno, Marco, Sandro e Mauro salgono all’igloo, io con Berto e Mirella riscendiamo al base, cantando canzoni del revival italiano. Bella serata. Fatico molto ad addormentarmi, mal di schiena (non vorrei fosse la vertebra), sudore e pensieri.
17 novembre. Al base è arrivata un’altra spedizione di americani con tanto di fotografo al seguito. Carlo è sceso con Angelo (i toscani per intenderci) all’amministrazione del Parco. Così dopo un mese ho colto l’occasione di far avere mie notizie a casa (un gesto che troppe volte ho mancato di fare anche quando costava veramente poco). Ore di tregua in attesa di avvicendarsi all’igloo. Dopo una cena frugale, vengono a salutarci gli spagnoli (mi ero sino a ora scordato di menzionarli). Sono costretti a partire per motivi di lavoro, e a loro il tempo non ha mai permesso nessun tentativo. Mi spiace non abbiano avuto l’occasione per raggiungere il loro obiettivo, nei loro sorrisi traspare un profondo rammarico.
18 novembre . Dopo pranzo con uno scalpellino intarsio una tavoletta di faggio di circa 70 per 30 cm, cercando di appiattirla. Piccola pausa e passeggiata sino all’apice della morena N-O che scende alle nostre spalle. Dai suoi enormi blocchi granitici ci viene offerto un panorama ineguagliabile di rocce e colori, di enormi e informi castelli di pietra, di strati di cielo variopinto. L’elemento che caratterizza questa visione eccezionale è quello delle Torri del Paine: da questo versante riacquistano eleganza e straordinaria bellezza, tre donne stupende che sembrano invitarti lungo i propri corpi sinuosi; ma sono luride sirene, celano oltre il loro indicibile fascino placche vetrate e diedri insidiosi. Ritorno al mio lavoro di intarsiatore, iniziando ad incidere a fuoco i nostri sette nomi con le rispettive sezioni C.A.I. , anche se nutro dubbi sulla scritta iniziale che, in linea teorica, dovrebbe essere quella della cima. Per scaramanzia non scrivo nulla. I trentini sono davvero squisiti, ci allestiscono un banchetto a base di polenta e fagioli e sugo al tonno. I toscani sono ritornati. Ma e Pa sono contenti di aver saputo che non ero ancora finito in un crepaccio. Ennesima battuta a scala. Non fatico ad addormentarmi tra mitragliate di vento fortissimo.
20 novembre. Mauro e Marco sono tornati giù, le loro illusioni sono andate sfumando con le ultime folate del vento violentissimo che ha accompagnato la loro permanenza in alto. Pranziamo per l’ultima volta assieme: loro devono partire, rientrare in Italia. Il tempo è al solito pessimo. Bruno propone di scendere per rinfrancare un po’ il morale. Ceniamo alle 11.30 con molti panini e birra.
21 novembre . La serata passata allegramente si fa sentire l’indomani sulle gambe e sulla bocca impiastricciata di malto ed orzo. Piove forte e in alto nevica, il sentiero è una striscia di melma, tanto che arrivo al base più somigliante a un reduce viet che a un alpinista (lo zozzone mi chiameranno per alcuni giorni). I nostri amici stanno preparando il materiale per il rientro (volo prenotato per il 26 a Rio Gallegos), non è bello vederli: marionette che spostano pacchi ormai sigillati con i loro ricordi, legano borse. Non piangono, ma le lacrime si colgono tra le pieghe dei loro sorrisi. È difficile sopportarne la vista, preferisco nascondermi tra gli alberi alla ricerca di una tavoletta da incidere per il compleanno di Giancarlo (un toscano. ) Marco riguarda un’ultima volta il base, i faggi che continuano a sbattere in alto. Quanto vorrei partire con loro. Domani andremo in alto. Ma sino a dove?
22 novembre. Cammina, Rufus, il ghiacciaio ti attende e solo dopo l’arrivo all’igloo potrai abbandonarti a pensare. Pura illusione, Bruno decide di proseguire per la forcella e pur contrariato lo seguo. La fatica è insopportabile per la neve profonda. La schiena mi fa veramente male. Dopo alcuni tentativi decido di non salire le corde fisse: il verglas comporta un eccessivo inarcamento della schiena e questo mi provoca dolore e fitte alla vertebra fratturata. Me ne resto accovacciato tra i sassi a pensare a che senso abbia tutto ciò. Decido di montare la tenda da parete a due chiodi a pressione, ma il vento non mi permette di farlo. Mi siedo sconsolato. La schiena mi fa impazzire. Ho perso forza e resistenza. Bruno e Berto portano a termine altri due tiri raggiungendo la cengia che ci permetterà di portarci sulla sinistra sino a raccordarci con il diedro sovrastante. Raggiungono terra alle 10 e 30. Riinizia a nevicare e tira un vento di una violenza straordinaria, ciò complica notevolmente le manovre con le jumar sulla fissa che collega il bancone alla forcella. Si aggiungano poi i capricci sistematici della frontale che non vuole saperne di stare accesa. Riesco tra difficoltà considerevoli a raggiungere l’apice della forcella assieme ai miei compagni. Siamo però solo all’inizio: ancora passaggi su neve che è diventata in poche ore ghiaccio puro, la roccia ricoperta dal verglas che fatica a togliersi anche con la becca della picozza, un rampone che si scalza improvvisamente sul pezzo di misto (…), ogni passo può portarti velocemente in basso. Ore 2.15 arriviamo stremati all’igloo dopo aver impiegato quasi 4 ore per poche centinaia di metri di dislivello.
23 novembre. Giorno infame. Nevica ancora. Riposiamo sempre con la testa alla Fortaleza: si parla ormai di cima improbabile, di come una via sul pilastro rappresenterebbe comunque già qualcosa di significativo. Così per ore, in modo maniacale. Nel pomeriggio sistemo con Bruno l’entrata dell’igloo ostruita da circa due metri di neve e ghiaccio staccatisi da chissà dove (forse una slavina dall’alto). Nevica con intensità tutto il giorno.
24 novembre . Sveglia ore 3 e solita sgradevole sfacchinata, con marcato aumento delle difficoltà e dei pericoli oggettivi per la precarietà della coltre bianca e per il verglas che ricopre i tratti di misto. Raggiunto l’attacco della nostra via inizio le manovre con le jumar, ma la schiena sembra ancora spezzarsi.
Ridiscendo quei 20 metri saliti con enorme sacrificio. Ne approfitto per attraversare il bancone che si estende a nord, in direzione del diedro tentato da Aste alla fine degli anni ’60. Dopo quasi un’ ora e mezza di misto non particolarmente difficile (II) ed alcuni canali di neve molto dura (55-60°) intravedo la linea provata senza successo dal trentino. Riesco a scorgere alcuni chiodi. Al mio ritorno trovo Berto che sta scendendo solo dalle fisse. Mi racconta delle sue disavventure con i jumars e con le corde gelate, fattori che, a suo dire, lo hanno fatto precipitare per 7-8 metri. Getto sulle spalle lo zaino con moffole e duvet, iniziando una velocissima risalita degli oltre 300 metri di corda, dimenticando i dolori alla schiena. Nel frattempo scoppia forse la bufera più intensa da quando siamo arrivati in Patagonia, fatico a respirare per la neve ghiacciata che entra nelle narici. Sono preoccupato per Bruno che ancora non intravedo. Lo scorgo con tra i turbini di neve, immobile. Temo che gli sia successo qualcosa. Lo raggiungo e vengo rassicurato dal suo sguardo severo. Mi chiede, dopo che il vento si è un po’ calmato, se sono disposto a continuare, gli rispondo affermativamente. Compiremo ancora un tiro micidiale in traverso e poi dalla sosta raggiunta di fatto arrampicando, iniziamo la discesa a doppie, rese quasi impossibili dalle sferzate del vento (usiamo il paranco per inserire le corde nel discensore). Berto non parla. Neppure noi. Qualcosa si è rotto nuovamente nell’intesa tra Bruno e Berto. Aggiungo io: per forza! Date le condizioni decidiamo di scendere al base senza neanche entrare nell’igloo. Il ghiacciaio ha cambiato in pochi giorni la sua conformazione, si sono aperti diversi crepacci, alcuni dei quali immagino siano molto profondi. Arriviamo al base verso mezzanotte e pur cotto non rinuncio a una bella scaletta (persa ovviamente) e a fumare con avidità. Noi continuiamo a provare la vetta, le altre spedizioni sembrano rinunciare a causa delle avversità. O sono dei coglioni o siamo noi degli incoscienti.
25, 26 e 27 novembre. Provo un senso di disagio fisico e sento la stanchezza permearmi, e forse questo fattore influenza negativamente la tenuta psichica. Sono strano, voglio rinunciare. La giornata, dopo tanta neve, è stupenda e la pressione è notevolmente aumentata. Domani, quindi, si presenterà forse la prima e ultima occasione favorevole, dobbiamo sfruttarla. Vengono decise diverse ore per la partenza, ma il mio annuire non trova un reale riscontro interiore. Dopo mille ripensamenti e timori trovo il coraggio di dire a Bruno che ho deciso di non salire. Berto arriva in baracca con altrettanti piagnistei, dice che preferisce andarsene, ma non osa dirlo a Bruno … Decido dopo qualche ora di riflessione di partire per l’igloo, poi mi fermerò. Arriviamo all’igloo alle due esatte. Sono stanco, ma contento per la decisione presa. Decisione che ha smosso anche Berto. Non è stato facile ma desideravo con tutto me stesso coronare un sogno. Lo volevo con tutto me stesso. Non potevo mollare. Ci riposiamo un’ oretta con del tè caldo e alle tre muoviamo i primi passi verso la forcella. Strano, non è la solita scoglionata, stanno arrivando nuove e inattese scariche di adrenalina. Sono di nuovo in forma. Risaliamo le fisse sino al loro punto terminale in conserva.
Bruno inizia ad arrampicare calmo e concentrato: un piccolo albero di natale con tutti quei nuts e friends, cordini, staffe e moschettoni. Iniziamo a percorrere il diedro perfettamente verticale, lungo una serie di fessure ben incise che permettono buone protezioni e soprattutto di farci guadagnare altri due tiri. Ogni tanto perdo il mio sguardo sulle fantastiche geometrie che solo il granito sa creare, anch’io creo con la fantasia alcune figure, poi un chiodo caduto e una selva oscura di porchi sul cammin di nostra via … mi riportano subito alla realtà. Sto arrampicando dall’inizio della salita con lo zaino di Bruno messo perpendicolarmente al mio e questo non mi ha impedito di salire, chiodare e schiodare dove necessario, spittare … quando però Berto mi ha d’improvviso consegnato anche il suo zaino (il terzo zaino), mi sento morire… lui non ce la fa più … Dopo 2 tiri arrivano inaspettati i casini, chi non li avrebbe con quasi 20 chili sulla schiena, anzi dappertutto (6 picozze, 2 martelli, fittoni, fornelletti, tenda, spit e chiodi, una corda …).
In un diedro strapiombante in cui Bruno aveva fatto del circo acrobatico per passare (due unici friend con staffe appese usati per buoni 15-20 metri in artificiale e senza altre protezioni), sono costretto a incastrami alla meno peggio in una fessura per riposarmi. Quando decido di uscire inizia la tragedia: non riesco a muovermi di un centimetro, gli zaini si sono incastrati, i fittoni si impigliano, sono tutto sbilanciato. Annaspo. Impreco. Bestemmio. Ingoio con rabbia neve trovata chissà dove. Sono solo e al limite delle forze. Ho paura. Salgo qualche metro con furia e ulteriore dispendio di energie. Sento Bruno gridare. Non sento le parole con chiarezza ma capisco che è arrabbiato. Sono sfinito. Rimango immobile per alcuni minuti. Soffro. Sono partito con la testa. Inizio a respirare contando i respiri. Devo uscire da questa situazione – mi dico – non posso arrendermi. Devo farcela. Sì, 10 centimetri alla volta, ma raggiungo la sosta senza parlare. Da questa si intravedono gli ultimi tiri. Mancano a occhio e croce tre tiri di corda per uscire, due dei quali su difficoltà di V°/V°+ con gli scarponi di plastica e senza più niente da dare. Avvicinarsi alla fine di tanti sforzi mi dona una sensazione mai provata. Quasi una gioia che libererei con un pianto. Mi dico che non posso farlo. L’ultimo diedrino appoggiato ed è fatta …, no ancora forse più di 250 metri di salita rognosa per raggiungere la vetta, avvolta in una maschera di ghiaccio, ma abbastanza disposta ad accettarci. Qualche passaggio di III° e due canali impegnativi superiori ai 60° … le ultime difficoltà … qualche altro passaggio facile … vorrei fermarmi, provo il desiderio di dormire lasciandomi coprire di gioia e serenità … quassù l’unica cosa che ti ricopre è la neve portata dalle raffiche impetuose di un vento violentissimo. Sono di nuovo in balia di una profonda crisi, ma faccio appello ai residui di forza: mi fermo a ogni passo, vorrei fosse l’ultimo, avanzo come un automa, appoggio solo la picozza senza vigore …. Ringrazio Berto che mi trascina le ultime decine di metri. I più duri. … Ore 21.50: STOP: foto, neve, amici, casa, te, io, loro, fotogrammi velocissimi ed inarrestabili (gli stessi che vedrò tutta la notte) che mi passano per tutto il corpo e non so più cosa fare. Poche parole scambiate in vetta, un grazie pronunciato lentamente da Bruno il cui viso è contratto dalla fatica e dalle croste di ghiaccio. Ho sete, tanta sete, ma non ci possiamo fermare, è ora di compiere le prime due doppie lungo la goulotte terminale. Quindi attrezziamo altre tre doppie su provvidenziali fittoni sino a ricollegarci ai chiodi dell’ultima sosta. Da questa iniziamo a scendere con cautela: sono le 11 passate, credo, e gli strapiombi non agevolano la discesa nella più completa oscurità. A metà parete decidiamo di bivaccare, la corda fissa non permette di proseguire tanto è incrostata dal ghiaccio. Una cengetta esile ci permette di montare la tendina, dentro la quale cuciniamo del brodo non senza difficoltà. Ne bevo avidamente alcune sorsate. Berto e Bruno si addormentano subito, hanno gambe e busto all’interno della tenda. A me scappa davvero tanto e dopo una sorta di kamasutra (ho dovuto togliere imbrago, ramponi, mutandoni …) riesco a rilassarmi. Non dormo un secondo: ho le gambe fuori della tenda a penzoloni, il vento mi fa sbattere sul viso il tessuto … odio Berto che dorme tutto rannicchiato. Ho freddo ed il douvet perso tra i crepacci … brutto mona! Alle 5 riprendiamo le doppie, disattrezzando la parete dalle corde fisse. Alla terzultima doppia, dopo aver perso il discensore, scopro che dopo aver inserito la longe … pochi centimetri ancora e sarei volato di sotto: la corda era finita! Arrivo alla cava e mangio tutto quanto abbia un vago sapore di cibo. È fatta. Non è però la nostra vittoria, è la vittoria del nostro gruppo, di quanti hanno creduto in noi. In tre ore e mezza portiamo tutto il materiale all’igloo, dopo aver compiuto due doppie necessarie per scavalcare la crepaccia terminale allargatasi di qualche metro. Siamo all’interno della nostra casa di ghiaccio quando all’improvviso udiamo delle voci. È Larry un amico di Bruno che con grande imprudenza ha affrontato il ghiacciaio e ci sta cercando (ha bivaccato lungo la morena). Una faccia sconosciuta che diventa subito amica. Beviamo ancora tè e qualche sorsata di Rum, cantando Guccini, Battisti, Celecd, Jiajc, … Serata indimenticabile.
28 novembre . Riusciamo a trasportare con slitte formate da pale e piccozze il materiale e le immondizie alla base della parete. Una sfacchinata per la quale impieghiamo quasi tre ore: 25 chili sulle spalle, 10 o 15 metri e poi via a lasciarsi scivolare pericolosamente per alcuni metri, quindi qualche istante di riposo e via di nuovo. Infine al base. Arrivo una manciata di minuti prima di Bruno: un manichino, i lineamenti contorti, gli occhi socchiusi, mani gonfie come salsicce. Ho conati di vomito, non ho dormito per 61 ore. È subito festa, battiti di mani, strette vigorose, foto. Tutto, per una sera, viene annegato in una smisurata felicità.
Fabio Bristot – Rufus